C’eravamo amati a modo nostro, un dispetto per uno, sotto l’insegna tarlata della crudeltà, rendendoci insopportabili (e perciò impossibili), ma proprio per questo c’eravamo amati di più. E adesso non avevo più voglia di guardarti vivere.
Torna in libreria il nuovo attesissimo romanzo di Luca Ricci, Gli estivi (La nave di Teseo), una storia di (non) amore, di scrittura e di abitudinaria disperazione consumata all’ombra di un Circeo rovente, deturpato dalla cattiveria agostana.
Il fil rouge che lega l’impianto letterario ricciano è l’ossessione per la scrittura, ma anche per i ruoli – nello specifico, quello dello scrittore; proprio uno scrittore è il protagonista di un romanzo che, pur parlando d’amore, di sentimentale ha ben poco.
Tutto e niente, questi gli estremi della non-storia tra lui e lei, Teresa, ragazzina incontrata in un ristorante durante la notte di San Lorenzo. Un incontro fortuito destinato a lasciare il segno perché, da quel giorno in avanti, i due si incontreranno nello stesso luogo per altre quindici, lunghissime, brevissime estati, in una sorta di appuntamento fisso.
Agosto, il Circeo, la calura estiva («l’incoscienza era la cifra dell’estate (e uno dei più grandi abbagli dell’umanità era stato confondere quell’incoscienza con la leggerezza)»: non vale, forse, anche per l’amore?); lui, la moglie, il matrimonio; lei, le amiche, il silenzio, l’insofferenza; e poi il non detto, le parole sbagliate, l’attesa, la crudeltà.
Luca Ricci inaugura una sorta di Romanticismo contemporaneo, uno Sturm und Drang dei tempi nostri in cui i rapporti interpersonali e l’indagine interiore, la fuga verso il sé, si intrecciano alle difficoltà sociali, alla contraddittorietà di un mondo in cui l’uomo complica l’esistenza per rincorrere il progresso trascinandosi appresso i legami amorosi, le emozioni, i sentimenti a briglia sciolta.
Per scoprire qualcosa in più di quest’universo intricatissimo e semplicissimo, ecco l’intervista all’autore.
{Colgo l’occasione, attraverso questa intervista, per inaugurare una bellissima collaborazione con il caricaturista, illustratore e sceneggiatore Renzo Sciutto, di cui troverete al termine dell’intervista tutti i riferimenti. E ovviamente, anche la caricatura di Luca Ricci.}
- Partiamo innanzitutto dal titolo, “Gli estivi”. Dopo aver letto “Gli autunnali” ci saremmo aspettati, che so, “I primaverili”, e invece passi direttamente alla stagione più crudele, l’estate. Perché questa scelta? Cosa rappresenta l’estate, la cui cifra, come scrivi tu, è «l’incoscienza»?
Per paradosso i quattro romanzi sulle stagioni che sto cercando di scrivere non rispondono a un criterio cronologico, non c’è una successione lineare di fatti ed eventi, non vogliono raccontare una saga, rifuggono dal concetto di serialità che ha come modello l’iper- romanzo. Il tempo è il vero protagonista del mio polittico proprio per il motivo opposto, è un tempo esploso, trattato in modo arbitrario, visto come un’astrazione, un’invenzione dell’uomo per orientarsi dentro la propria mortalità (quanto manca?, quando è morto?). In parole povere, sono quattro storie completamente diverse, in cui resta uguale soltanto l’approccio profondo, il mio sguardo sulle coppie, gli intellettuali, Roma.
Tocca all’estate, stavolta, che per tutti è il tempo della giovinezza. Keats nella sua famosa poesia The Human Seasons dice che l’estate è il tempo della voluttà. Dunque ho preso questi due elementi, «giovinezza» e «voluttà», e ho tentato di rovesciare lo stereotipo, perciò mi sono servito di un protagonista vecchio e, suo malgrado, casto.
- «La nostra prima estate si consumò tutta così». Si conclude in “un niente che è tutto” (direbbe qualcuno) la prima estate del nostro con la sua bella Teresa. Non succede nulla. Parte da qui, da questo nulla, un amore che rimarrà lungamente inesploso, non consumato, un amore che si contrappone invece a quello matrimoniale – penso ovviamente ad Ester. Come li definiresti, questi due tipi di legame?
Credo che una buona storia d’amore debba conoscere le regole della procrastinazione, anche rischiando che alla fine non succeda un bel niente. Mi ricordo di un racconto intitolato Senza domani di Vivant Denon dove un giovane di belle speranze e una contessa raggiungono il massimo dell’erotismo trasformando l’unica notte di cui dispongono in una specie di labirinto sacrale, oppure, forse più prosaicamente, delle commedie sexy all’italiana, non a caso citate ne Gli estivi, dove non si arriva mai al dunque, e ci si perde in una selva di docce e buchi della serratura. Meglio restare alle premesse, per quanto riguarda l’amore, come ad esempio succede a Romeo e Giulietta: si ameranno per sempre perché in fondo si sono amati una notte sola, sono riusciti a morire prima del loro amore. Il rapporto coniugale è l’opposto, è l’amore che ha avuto l’incoscienza di succedere, di non fermarsi in tempo. Sono due prospettive totalmente diverse, ma forse complementari. Quindi, un po’ a sorpresa: l’assennatezza dell’innamoramento, e l’azzardo dell’amore!
- A proposito di Ester, credo sia uno dei personaggi più coriacei di tutto il romanzo. A conti fatti, forse, il più bello. Che moglie è? E cosa si aspetta Ester da suo marito, ma anche dalla vita?
Ester, la moglie del protagonista, è quella che ha lo sguardo più lucido sul matrimonio. Ne parla male, ma se lo può permettere: sa che potrebbe fare a meno del suo matrimonio, ma non dei suoi legami. Mette in crisi l’ordine sociale e, di rimando, tutte le parole a esso correlate. Così non pensa mai che suo marito sia un potenziale «adultero», o Teresa una potenziale «amante». Trova la sua salvezza – il suo equilibrio? La sua stabilità?- nell’accettare la sostanziale inconoscibilità delle persone che amiamo.
- Di sicuro, il secondo grande fil rouge che tiene unite le tue narrazioni è la scrittura. O meglio, le idee, le riflessioni e le circonvoluzioni sul senso di scrittura. Penso non soltanto al protagonista che di mestiere fa lo scrittore, ma anche a Lello, suo editore, e a tutta quella fetta di editoria indipendente che soffre in modo quasi irreparabile. Perché la scrittura è così spietata?
Parlando di scrittura mi vengono in mente due tipi di spietatezza. La prima è intima e riguarda lo scrittore, Simenon si lamentava del fatto che se gli veniva un’idea per un romanzo prima delle vacanze, doveva spiegare alla sua famiglia che non sarebbero più potuti partire, perché quando una storia ti chiama funziona proprio così, devi dire addio al mondo; la seconda invece appartiene al milieu, e non c’è niente di meglio per descriverla che una presentazione letteraria: se va bene nella stanza insieme all’autore ci sono una ventina di persone, e tutti vorrebbero fargli le scarpe.

- E tu? Come ti poni nei confronti della scrittura? In modo sfacciato, umile, curioso o cos’altro?
La metto nei termini più crudi di cui sono capace: è’ la cosa che faccio. Non la cosa che mi riesce fare, non la cosa che mi piace fare, ma quella che, semplicemente, a differenza di molte, moltissime altre cose, faccio. Mi viene da fare. E’ tutto molto semplice, ogni giorno ci si sveglia, capelli arruffati, membra rattrappite, un generale senso di confusione (e mai come in questo periodo), ci si alza dal letto, si va in bagno e poi in cucina, e durante il primo caffè, a poco a poco, più o meno faticosamente, si mette a fuoco quel che si farà. Nove volte su dieci per me è scrivere.
- C’è un collegamento effettivo tra scrittura-estate-amore (che, a dirla tutta, insieme sembrano creare una specie di triangolo delle Bermuda)? Qualcosa che leghi questi tre elementi, come ad esempio la crudeltà, la cattiveria, il principio di illusorietà?
Non ero bravo in trigonometria, ma penso di essere attratto dalla crudeltà soprattutto se osservata in ambiti che vorremmo sempre ispirati a principi alti, alati, nobili, come quello dell’amore. La crudeltà di chi si ama m’interessa molto di più della crudeltà di un soldato o di un camorrista o di un broker. Perché se c’è crudeltà anche nell’amore, persino nell’amore, se l’amore alla fine è un sentimento che racchiude una violenza inaudita, allora vuol dire che siamo nei guai seri, e pare proprio che sia così. D’altronde la letteratura s’interessa da sempre dei problemi grossi, cioè quelli senza soluzione. Schemino: per i problemi risolvibili c’è la scienza, per quelli irrisolvibili c’è l’arte (o la religione, ma è demodé).
- Vargas Llosa ne “La verità delle menzogne” ha scritto: “i romanzi mentono – non possono fare altrimenti – ma questa è solo una parte della storia. L’altra è che, mentendo, esprimono una strana verità, che può essere espressa solo se mascherata da quella che non è”. Sei d’accordo? E come ti sei scoperto scrittore?
Si mente per dire la verità, per tendere alla verità. E’ certamente così, per questo non capisco bene l’autofiction, che da questo punto di vista sarebbe come dire una mezza bugia per dire una mezza verità. Ma forse, fortunatamente, esattamente come succede nel realismo, l’autofiction è solo un genere letterario, cioè ricade tutta nel campo della pura finzione. Io in epoca liceale ho letto dei racconti di Maupassant ed è stato come recarmi a un colloquio di lavoro. Chiuso il libro ho sentito distintamente un sentimento di commozione e gratitudine. La letteratura, attraverso il caro vecchio Maupassant, mi aveva assunto. A tempo indeterminato.
Caricatura di Luca Ricci ad opera di Renzo Sciutto: caricaturista, illustratore e sceneggiatore, Sciutto ha scritto soggetti e sceneggiature per “Topolino”, “Almanacco Topolino”, “Paperino mese”; ha collaborato come disegnatore con “Sorrisi e canzoni tv”, pagine di cultura ed economia del “Corriere della Sera”, “Uomo Vogue” e “La settimana enigmistica“.
Potete seguirlo su Instagram: @caricature_perteforyou
O contattarlo tramite mail: sciuttorenzo@tiscali.it