L’Inferno di Jean Clair alle Scuderie del Quirinale

“L’inferno sono gli altri”.

Jean-Paul Sartre

Inaugurata il 15 ottobre scorso e disponibile fino al prossimo 23 gennaio 2022 (prorogata), alle Scuderie del Quirinale è arrivata la mostra Inferno, curata da Jean Clair – pseudonimo di Gérard Régnier –, Accademico di Francia, grande intellettuale europeo nonché uno dei grandi fondatori del Centre Pompidour di Parigi e poi direttore del Musée Picasso, sempre a Parigi. Molto legato alla città di Venezia, Jean Clair si è sempre occupato di quei sentimenti legati a un Novecento turbolento, tragico e soprattutto contraddittorio, intrecciando legami spessi con le parti buie della nostra psiche. Insomma, quello che promette Jean Clair con Inferno, è un viaggio a tutto tondo nel mondo dell’oscurità, raccolta, immortalata e in qualche caso perfino compresa, in tutte le sue sfaccettature, da quelle più metafisiche a quelle più concrete.

A tutti coloro che si accingeranno a gustare questa mostra va detto, anzitutto, che non si tratta di una mostra sull’inferno dantesco, o meglio: è chiaro che s’inserisca inevitabilmente nel circuito delle celebrazioni nazionali in occasione dei settecento anni dalla morte di Dante Alighieri, ma non si tratta di un percorso sulla Divina Commedia o sulla figura e l’opera del Sommo. Quello proposto da Jean Clair è un cammino reale nel mondo degli inferi, più tangibile che mai, che non ha nulla di accademico in senso stretto perché proiettato a fornire numerosi spunti di riflessioni che vadano oltre la dimensione del già “conosciuto”. Inquietudine e terrore si alternano a sprazzi di maggior quiete e di consapevolezza.

Occorre specificare anche che questo viaggio si compone di tre parti ideali:

  • Un primo blocco in cui il racconto dell’Inferno viene mostrato così come concepito dal pensiero occidentale ed umano, ossia ci si chiede esattamente dove sia possibile collocare il Male; a seguire, avremo la presentazione di un Inferno come siamo abituati a parafrasarlo, soprattutto grazie all’opera dantesca.
  • Il secondo piano ospita invece un cambio di prospettiva: l’Inferno viene da noi, e ci ritroviamo in uno spazio dedicato alle manifestazioni culturali dell’Inferno nel mondo. Sarà inevitabile attraversare quel confine che delimita la distanza tra l’idea dell’inferno e l’Inferno in “carne e ossa”, generato dall’uomo e dall’uomo stesso alimentato attraverso le guerre, le battaglie, le scelte drammatiche che hanno segnato la Storia e, nondimeno, le concezioni distorte del disturbo mentale (follia come Inferno, possessione demoniaca).
  • Al termine del percorso, però, proprio come ebbe a dire Dante: “E quindi uscimmo a riveder le stelle”: un sospiro di sollievo e un alito di speranza ci conducono lontani dalle visioni orrorifiche e ci permettono di osservare l’immensità del cielo e dell’Universo tutto in una ricerca intima, ma anche collettiva, del Bene assoluto.

Partiamo dal principio, e proviamo a chiederci, man a mano che le opere d’arte si palesano, cosa sia anzitutto il Male, che forma abbia, dove risieda, a chi si rivolga.

“Il diavolo, colui che separa, come indica l’etimologia (διάβλος), divide l’unità umana, distrugge, decompone, nega tutto ciò che l’uomo compone e costruisce sotto lo sguardo e per la gloria di Dio: le lingue, le parole, la cultura, la bellezza delle forme e la perfezione delle arti (…). L’inferno è un budello interminabile, pozzo senza fine, latrina ultima, piena di odori insopportabili”.

È lo stesso Jean Clair a dare questa definizione di diavolo, che possiamo in una certa misura attribuire alla parola Male, sebbene la mostra ci dica chiaramente che il Male ha molti volti, non tutti di natura soprannaturale.

Una volta scorse le immagini del film “Inferno” (1911) che apre la mostra – una storica allegoria cinematografica che riprende tutte le scene dell’Inferno illustrato da Gustave Doré, trasformandole secondo il gusto degli anni Dieci del Novecento italiano –, ci troviamo di fronte ad alcune delle più celebri rappresentazioni dell’Inferno: “La porta dell’Inferno” di Auguste Rodin in tutta la sua terrificante maestosità, “La caduta degli angeli ribelli” di Francesco Bertos (?) con la sua piramide di esseri contorti, e “La Morte” di Gil De Ronza (per la prima volta uscita dalla Spagna) con i vermi che perforano il costato di un uomo ridotto a scheletro, alto e scuro.

È già qui, dai dettagli inquietanti delle prime opere, che lo spettatore riconosce un’idea di morte e di trapasso legata al pensiero occidentale, ricca di riferimenti non tanto scolastici quanto più propriamente emotivi, che ci accompagna da secoli. L’Inferno non è solo un luogo, è prima di tutto un modo di stare al mondo, che inevitabilmente si ripropone una volta oltrepassata la soglia della vita. Cosa ci aspetta, “dopo”? Chi ci sarà ad attenderci? Dov’è Dio, e perché non abbiamo saputo tenercelo stretto?

Muovendoci tra le opere, e passando accanto alla Porta di Rodin, si ha l’impressione che nulla sia più concreto dell’Inferno, quasi fosse l’unica possibilità oltre la Morte. Il destino dell’uomo è segnato in modo ineluttabile dal demoniaco, ma perché? Per darci una risposta basterà fare qualche passo avanti e posare lo sguardo sui lavori successivi, che rispondono ad un’altra domanda: che luogo è l’Inferno?

A tal proposito, Laura Bossi dice che «benché nella storia delle religioni l’Inferno precede il Paradiso, sarà rappresentato tardivamente nelle arti visive», e che «nell’iconografia dell’Occidente cristiano l’Inferno appare intorno al IX secolo, soprattutto nelle lunette dei portali delle chiese romaniche dedicate al Giudizio; ma per secoli se ne vedrà solo la porta, di solito simbolizzata da una bocca che inghiottisce i dannati, evocazione del Leviatano, e nel contempo espressione della paura arcaica di essere divorati».

Eccoci arrivati alla rappresentazione fisica – leggi: geografica – dell’Inferno: nonostante sia qualcosa di inafferrabile, indicibile e impensabile, l’uomo e l’artista/ poeta, nello specifico, non hanno mai potuto fare a meno di immaginarlo, di pensare ad uno spazio più o meno definito (e definitivo) in cui localizzare le anime dei dannati.

Cos’è l’Al di là? Una caverna sotterranea, un abisso nero e scuro, la dimora dei diavoli, come sostiene Chiara Frugoni: «nel nostro immaginario i diavoli stanno all’Inferno (…). L’Inferno e il Paradiso sono i regni ultraterreni rappresentati di solito come esito del Giudizio finale. Ma è solo alla fine del mondo e di ogni tempo che tutti i diavoli e tutti i dannati staranno per sempre all’Inferno». Questa è la condizione che noi immaginiamo ma che, soprattutto, non si sarebbe ancora verificata: iconograficamente vediamo l’Inferno rappresentato in questo modo, ma di fatto il regno dell’oltretomba non è un luogo già “verificato”, bensì di là dall’accadere.

Ecco perché siamo autorizzati a pensare l’oltre come un posto dalle mille sfumature. Di sicuro, uno degli elementi che più caratterizzano l’Inferno, quantomeno nel nostro immaginario, è l’entrata: una bocca, un calderone, delle fauci che precedono un antro più o meno grande, pronto ad inghiottire e all’interno del quale, tra fiamme e temperature elevate, i dannati si mescolano ai diavoli e alle tenebre.

All’interno della mostra, molti saranno gli esempi a riguardo, come le fotografie che ritraggono l’”Orco nel giardino di Palazzo Orsini a Bomarzo” di Herbert List, o come “Cabaret l’Enfer, 53 Boulevard de Clichy, Paris” di Robert Doisneau. Ancor più spaventoso, se pensiamo alle “umane genti” nella grande pentola della morte, è l’opera “La visione di Tundalo” (1500 circa), dalla bottega di Hieronymus Bosch, o anche “Inferno” di un anonimo portoghese (opera del 1510-1520 circa) in cui al centro, dentro un grosso recipiente a forma di caldaia, bollono esseri umani mentre tutt’intorno diavoli e demoni punzecchiano con le loro lance gli eterni disgraziati.

In proposito, Luigi Gallo sostiene una tesi molto precisa: «inizialmente la bocca dell’Inferno ha un’apparenza antropomorfa, ispirata forse alle figure ctonie della mitologia antica, come i Ciclopi, i Titani, i Giganti, figli delle forze primordiali di Urano (cielo) e Gea (terra), divenuti simboli di malvagità e superbia per i loro tentativi di rovesciare le divinità olimpiche».

Che in seguito le rappresentazioni non solo dell’Inferno, ma anche dell’ingresso stesso siano cambiate non c’è dubbio, testimonianza ne è la parte finale della mostra – preceduta da un’ampia e meravigliosa sezione dedicata più all’Inferno dantesco e a tutti i simboli che ne sono portavoce: i suggestivi disegni di Gustave DoréDivide Comedie: l’Enfer”, il “Dante in esilio” di Andrea Besteghi, la terrificante “Barca di Caronte” di José Benlliure y Gil, così come i grandi classici “Francesca da Rimini” di Giuseppe Frascheri, “Myrrha” di Jules-Frédéric Adolphe Loëwe Marchand, “Dante e Virgilio” di William Bouguereau e “Dante e Virgilio all’Inferno: girone dei traditori della patria” di Gustave Courtois.

Passando per una rappresentazione quasi più “ludica” del Male, o per meglio dire del Diavolo, contraddistinta da un’umanizzazione dell’Inferno grazie alla presenza dei pupi siciliani e di tutta quella tradizione popolare, folcloristica e meno terrificante – ma che non per questo suscita minor inquietudine – (non potrete fare a meno di soffermarvi sul “Demonio” di un anonimo spagnolo del XVIII secolo che se ne sta sospeso in aria, con un corpo del tutto simile a quello di un uomo qualunque, e un’espressione terrorizzata quasi volesse scappar via dalla paura che lui stesso dovrebbe incutere) che rende l’uomo assai più propenso a idealizzare l’oltretomba come un posto tutto sommato non troppo diverso da quello in cui vive, si giunge finalmente al nodo cruciale della mostra, là dove l’essere umano è chiamato in causa come fattore scatenante.

Demonio di Anonimo spagnolo, dalla mostra “Inferno” di Jean Clair, Scuderie del Quirinale

Jean Clair esplica ancor più la sua genialità nella terza e ultima parte, in cui l’Inferno è reso in modo chiaro, senza fraintendimenti alcuni, dalle gesta umane: battaglie, guerre, distruzioni di luoghi fisici e mentali, travisamenti di modi d’essere che solo molto tempo più avanti (potremmo dire l’altro ieri) verranno attribuiti non a possessioni demoniache ma a disturbi della mente, curabili ognuno a modo proprio.

La Barca di Caronte di José Benlliure y Gil, dalla mostra “Inferno” di Jean Clair, Scuderie del Quirinale

Dunque non solo guerre mondiali e città ridotte a ferro e fuoco (basti osservare “L’Inferno” di Georges Leroux), non solo i terrificanti calchi dei volti dei caduti durante la Grande Guerra; non solo l’orrore per eccellenza, quello che Primo Levi ci ha ricordato con “Se questo è un uomo” e che fa riferimento ai campi di sterminio nazista (significative, fra le altre, sono le opere “Inferno Memoriale Dachau” di Fritz Koelhe e “Nein! Eleven” di Jake e Dinos Chapman); non solo le fabbriche, che prendono quasi le sembianze di un mostro di fuoco, e non solo, in generale, l’inferno urbano come prigione. Ma anche il mondo sommerso della psiche, uno degli aspetti più interessanti di questa terza parte – prima di poter uscire a “riveder le stelle”.

Philippe Comar scrive chiaramente che nell’Ottocento ci fu un rinverdimento delle “epidemie demoniache”, le quali arrivarono anche in Italia: nel 1860, nel piccolo villaggio di Morzine sulle Alpi francesi, scoppiò un’epidemia di possessioni demoniache per cui fanciulle giovanissime sostenevano di ricevere lettere dal diavolo; nel 1878, a Verzegnis, in Friuli, si verificò una epidemia di convulsioni con attacchi particolarmente deliranti, e i medici Giuseppe Chiap e Fernando Franzolini, studiando attentamente il fenomeno, parlarono senza dubbio proprio di “possessioni demoniache”. Ma, per fortuna, scrive sempre Comar, che «gradualmente tutti i fenomeni di trance religiosa o possessione riemersi nell’Ottocento abbandonarono i banchi delle chiese e i pulpiti dei predicatori per passare alle corsie degli ospedali».

Ecco dunque perché troverete opere simboliche, in tal senso, e particolarmente suggestive come “La sala delle agitate all’ospedale di San Bonifacio di Firenze” di Telemaco Signorini (1905), o “La pazza” di Giacomo Balla (1905) – ricordiamo che le donne furono da sempre facile bersaglio di certe convinzioni, nonché capro espiatorio a giustificazione, e interpretazione, della tentazione dell’uomo, peccato supremo – e infine, ultima ma non ultima, l’opera di David NebredaLo specchio, la cenere, gli escrementi, l’alfa e l’omega sulla fronte” (1989).

Muovendoci in questa direzione, è fondamentale scardinare quello che per tanti secoli – fino ai tempi più recenti – è stato da sempre considerato un tabù (infernale): la malattia mentale e, più in generale, il disagio del vivere, ciò che l’uomo non riesce a governare e che talvolta si ritrova a non saper gestire. Il diseducativo, il brutto, il volgare, l’empio: in una parola l’umano.

«A differenza del bello, che è disciplinato da regole di proporzione e armonia, l’orribile, come l’ignobile o l’abietto, non ha limiti di sorta» scrive ancora Comar «è per sua natura il regno di ogni trasgressione, di ogni sfogo. La bellezza è la cosa semplice, l’orribile è quella straordinaria, e tutte le fervide immaginazioni preferiscono lo straordinario al semplice, spiega Sade. (…) Con l’avvento dell’età moderna, l’universo degli ospedali psichiatrici non appare più come un mondo altro rispetto alla società, ma come un’immagine appena caricaturale della società stessa. I manicomi, edificati nel Settecento nelle periferie, con l’espansione dell’urbanesimo si ritrovano nel cuore della città, in senso letterale ma anche figurato».

“Stelle cadenti” di Anselm Kiefer, dalla mostra “Inferno” di Jean Clair, Scuderie del Quirinale

Quello offerto dalla mostra Inferno alle Scuderie del Quirinale è un viaggio onirico, visionario, realistico, magico: non c’è dimensione dell’Altrove e del Vivere che non venga indagato, intrecciando le emozioni antiche a quelle contemporanee mentre lo spettatore può permettersi di camminare in un territorio sconfinato ma al contempo reso “sicuro” e addomesticato dal curatore, Jean Clair. Il vero e il fantastico diventano, in questo caso, non altro che il medesimo specchio all’interno della nostra stanza interiore.

Al termine di quest’esperienza, però, per immergervi ancora di più nell’universo demoniaco (e ritrovare infine la speranza dell’esistere), non potete privarvi del catalogo “Inferno” – ideazione di Jean Clair, a cura di  Jean Clair e Laura Bossi, Electa-Scuderie del Quirinale – e di una serie di titoli che navigano sulla scia di ciò che avrete appena visto:

  • “A casa prima di sera” di Riley Sager (Time Crime Fanucci)
  • “L’estate che sciolse ogni cosa” di Tiffany McDaniel (Atlantide Edizioni)
  • “Il diavolo in corpo” di Raymond Radiguet
  • “Le stanze buie” di Francesca Diotallevi (Neri Pozza)
  • “Racconto grosso e altri” di Paola Masino (Rina Edizioni)
  • “Gente nel tempo” di Massimo Bontempelli (Utopia)
  • “Le scrittrici della notte” a cura di Loredana Lipperini (Il Saggiatore)
  • “Grimorio” a cura di Antonella Castello e Federica Marsili (ABEditore)
  • “Rebecca la prima moglie” di Daphne Du Maurier (Il Saggiatore)

L’Inferno visto da Renzo Sciutto

Disegno di Renzo Sciutto: caricaturista, illustratore e sceneggiatore, Sciutto ha scritto soggetti e sceneggiature per “Topolino”, “Almanacco Topolino”, “Paperino mese”; ha collaborato come disegnatore con “Sorrisi e canzoni tv”, pagine di cultura ed economia del “Corriere della Sera”, “Uomo Vogue” e “La settimana enigmistica”.

Potete seguirlo su Instagram: @caricature_perteforyou

O contattarlo tramite mail: sciuttorenzo@tiscali.it

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