Gli spettri, compresi in quel momento, non esisterebbero se non fossimo noi, con i nostri desideri, col nostro amore, col nostro dolore, a trattenerli qua. Gli spettri vivono dentro di noi. Gli spettri, talvolta, siamo noi.
Che Francesca Diotallevi avesse una scrittura più che felice lo sapevamo già, ce l’aveva già detto con Dentro soffia il vento (Neri Pozza, 2016) e poi con Dai tuoi occhi solamente (Neri Pozza, 2018), ma non credevo possibile un superamento della sua dimensione narrativa così netto ed efficace.
Benché Le stanze buie (ora in libreria sempre per Neri Pozza, in una versione profondamente rivista rispetto alla prima edizione del 2013 per Mursia) sia di fatto un esordio, Diotallevi è riuscita a condensare tutti gli elementi della migliore tradizione italiana tardo ottocentesca, che richiamano a chiare lettere l’universo della letteratura gotica. Testimonianza ne è il fatto che Diotallevi si dimostra anzitutto grande lettrice, e l’eco dei libri che hanno contraddistinto il suo percorso risuona nelle pagine donando al romanzo una traccia classica che non scalfisce la sua voce di autrice contemporanea.
Un romanzo gotico, dicevamo, che si svolge in una piccola provincia piemontese a metà dell’Ottocento: a Villa Flores, Vittorio Fubini arriva in seguito alla morte dello zio Alfredo, un uomo di cui non sa nulla se non che, negli anni, si è sempre preso cura di lui se pur a distanza. Vittorio diventerà il maggiordomo di questa villa isolata e misteriosa, che cela segreti inconfessabili e centinaia di piccoli rumori, ombre e passi furtivi di cui anche Vittorio stesso si accorgerà.
Cosa si nasconde a Villa Flores? E chi è davvero Lucilla, la moglie del padrone Amedeo Flores, profumiera di professione e donna meravigliosamente inquietante? E che ruolo avranno sua figlia Nora e tutto il resto della servitù?
Le stanze buie è un romanzo perfettamente costruito, ricco di pathos e di romanticismo, in cui la paura del passato e soprattutto la paura di non riuscire a dimenticarlo, dialoga con un presente confuso e dubbioso.
Di tutto questo, ne abbiamo parlato con l’autrice, Francesca Diotallevi.

- Da dove nasce l’idea del romanzo e, nello specifico, come mai hai voluto esordire con un romanzo gotico, che di fatto riprende la migliore tradizione italiana del genere?
In verità, quando ho iniziato a scrivere Le stanze buie, ormai dieci anni fa, non avevo la minima idea della piega che avrebbe preso la storia. Sapevo solo una cosa: il protagonista doveva essere un maggiordomo, come il Mr. Stevens di Ishiguro, che mi aveva fatto innamorare. Poi, senza che me ne rendessi conto, dentro questa storia sono finiti molti altri libri a me cari: Giro di vite, Jane Eyre, Cime tempestose, Malombra, Casa di bambola, Rebecca la prima moglie, Fosca e L’ospite di Sarah Waters. A riprova del fatto che i libri che leggiamo operano su di noi in modi misteriosi e meravigliosi.
- Partiamo dai personaggi “umani” – visto che poi ce ne sono altri non propriamente antropomorfi, a partire dalla casa Villa Flores, fino ad arrivare ai profumi, che hanno un ruolo comunque centrale: mi è parso che i soggetti maschili, Vittorio, Amedeo, Alfredo, rappresentino dei lassi temporali che costituiscono i momenti salienti di questa storia segreta (Amedeo e Alfredo un tempo passato e Vittorio un tempo presente piuttosto confuso e dubbioso, da ricostruire), mentre le donne, in primis Lucilla ma anche Ottavia e Nora, appaiono come dei ponti umani, quasi a dire degli strumenti che collegano queste dimensioni – tanto reali quanto visionarie. È così?
È sorprendente quante cose io stessa scopra sui libri che ho scritto, grazie allo sguardo altrui. Non avevo mai considerato i personaggi da questo punto di vista, ma è innegabile che alle mie protagoniste femminili io assegni talvolta un ruolo quasi taumaturgico. Anche in questo caso non c’è stata alcuna consapevolezza o volontà nell’indirizzare i personaggi: tutti loro hanno preso vita tra le pagine del libro, decidendo da soli la propria sorte e la propria «parte».
- Vittorio Fubini – il maggiordomo che arriverà a Villa Flores dopo la morte dello zio, e che è non solo uno dei protagonisti ma anche voce narrante – ad un certo punto dice (ripetendolo forse più d’una volta): «Io ero il mio lavoro». Cosa vuol dire? Puoi dire lo stesso di te, sei il tuo lavoro?
Quando ho scritto Le stanze buie non ne avevo piena consapevolezza. Oggi, a distanza di dieci anni, posso dire che Vittorio mi assomiglia più di quanto io abbia mai sospettato: nell’ossessione del perfezionismo, ma anche nella dedizione al proprio lavoro. Per Vittorio quel «io ero il mio lavoro» significa abnegazione, disciplina, rigore, solitudine. Tutti aspetti che hanno molto a che fare con la scrittura.
- «Odori e memoria sono strettamente collegati fra di loro» scrivi in riferimento all’attività di Lucilla Flores, profumiera. Cosa rappresenta, nel romanzo, l’elemento del profumo, e perché viene associato al ricordo? È forse un mezzo, come in Capuana, per mettere in relazione il prima e il dopo delle vite degli esseri umani, o gli esseri umani stessi – col loro vissuto e i loro perché?
Il filo rosso che corre tra le pagine delle stanze buie è la memoria, il ricordo. Non è un caso che l’oggetto simbolo del romanzo sia un orologio. Volevo che anche il lavoro di Lucilla andasse in questa direzione: il senso dell’olfatto, rispetto a quello della vista o della parola, ha una capacità di imprimere ricordi più a lungo termine. Il tempo, come ci insegna Proust, non incide sui ricordi derivanti dagli stimoli olfattivi. Il profumo è l’unico elemento capace di far sopravvivere intatti i nostri ricordi nel corso degli anni, perché agisce sulla memoria emotiva.
- A proposito di Villa Flores si dice: «Quando mi voltai per rientrare, mi sentii quasi sopraffatto dalla casa. Mi sembrò imponente, minacciosa. E il suo interno un intricato labirinto di segreti taglienti come rovi, pronti a richiudersi intorno a chiunque avesse tentato di svelarli». Nei romanzi gotici, cosa rappresenta la casa, e perché diviene il simbolo del luogo del misfatto anziché il punto d’incontro della famiglia, il rifugio?
Quando ho iniziato a scrivere questo romanzo, non pensavo avrei scritto un gotico. La casa è apparsa tra le pagine come è nella realtà: Villa Flores è la casa dei miei nonni. Una casa di campagna imponente e decadente, piena di corridoi bui e stanze chiuse in cui nessuno mette piede da anni, con il mobilio rivestito di fodere bianche e quell’aria di cose che sono state e non sono più. Quando ero bambina e iniziava a fare buio, correvo a perdifiato perché avevo paura di tutte le porte che si affacciavano sui corridoi. Ancora oggi, negli alberghi sono a disagio e Shining è stato il mio incubo ricorrente per anni e anni. Eppure a quella casa sono legata da un amore difficile da spiegare. Nel mio romanzo la casa è un organismo vivente che cela, confonde, spaventa ma, soprattutto, esiste e resiste, e custodisce. In fondo le case, tutte le case, sono le famiglie che le abitano, e io sono convinta che qualcosa di noi resti sempre, nelle case che abbiamo abitato.
- E, conseguentemente, verrebbe da chiedersi: che luogo è, invece, la famiglia?
La famiglia è il luogo che ti scegli. Non ho mai creduto che le vere famiglie siano legate solo dal sangue, e questo romanzo ne è la dimostrazione. In una lettera alla figlia Vittorio dirà: lo stesso sangue scorre nelle nostre vene ma se anche così non fosse ti amerei lo stesso. Il sangue è potente, ma l’amore lo è di più.
- Gli spettri, talvolta, siamo noi. Niente di più vero. Riesci a distinguere tutti gli spettri che ti abitano? E tu? Ti senti anche tu uno spettro?
Se non fossi abitata da spettri, probabilmente non scriverei romanzi. Gli spettri sono le nostre ossessioni, ciò che ci tormenta, gli assilli che ci tengono svegli di notte. Sono le parti in ombra che rifuggiamo, le pulsioni che rifiutiamo, i desideri impronunciabili, l’irrisolto. Sono le stanze buie dove vaghiamo.
- Ho definito Le stanze buie come un romanzo sul passato e sulla paura dei ricordi: si può vivere all’ombra del passato? E cosa accade a chi lo fa?
Sì, si può vivere all’ombra del passato, per molti è così. Il protagonista delle stanze buie vivrà per quarant’anni ossessionato dal passato, da ciò che non è stato in suo potere cambiare. Ma il rimpianto e il rimorso sono tagliole che stritolano, amputano, lasciano agonizzanti. L’unico modo per superare un grande dolore è attraversarlo, farci i conti e accettarlo. Solo così i ricordi smetteranno di essere fardelli e il passato cesserà di fare ombra.
- Cos’è per Francesca Diotallevi la scrittura, e cosa rappresenta la Letteratura?
La scrittura è qualcosa che mi accompagna da molti anni, ormai. È stata uno svago e una liberazione, ma anche un peso e una prigione. È uno spazio bianco dove liberare la fantasia, ma anche un luogo oscuro dove relegare l’indicibile. È certamente un’ossessione, un pensiero costante, un padrone. Con lei ho rapporto che a volte è spensierato, altre estremamente complicato. È un mestiere, ma anche una via di fuga da una realtà che non sempre mi soddisfa. È qualcosa in continua evoluzione.
La Letteratura, invece, è stata sempre, sempre, sempre un luogo felice, il luogo dove ho scelto di abitare.
Disegno di Renzo Sciutto: caricaturista, illustratore e sceneggiatore, Sciutto ha scritto soggetti e sceneggiature per “Topolino”, “Almanacco Topolino”, “Paperino mese”; ha collaborato come disegnatore con “Sorrisi e canzoni tv”, pagine di cultura ed economia del “Corriere della Sera”, “Uomo Vogue” e “La settimana enigmistica”.
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