“A volte sono vuota per un tempo lunghissimo”, scriveva Marguerite Duras nei suoi appunti sparsi, “sono senza identità”, ribadiva, anche se un’identità, ben precisa, lei ce l’aveva. Un’identità leggera come il vento e pesante come la bufera. Lei era, ed è, la “scrittrice selvaggia e inattesa”.
Quando l’ho vista per la prima volta – una fotografia in bianco e nero, sbiadita dal tempo, lei giovanissima con i capelli raccolti e gli occhi aperti solo per metà – ho avuto come l’impressione di riconoscere qualcuno che non vedevo da tempo; a oggi non riesco a spiegare la sensazione che provai, ma mi colpì quello sguardo penetrante e al contempo fluido, perfino sfuggente, perso nel vuoto eppure agganciato a un punto fisso. All’epoca, avevo letto solo “L’amante” e “L’amante della Cina del nord”, conoscevo solo una piccola parte di quella scrittrice francese nata in Vietnam che, in modo quasi ipnotico, mi costringeva a penetrare nelle sue parole e a riconoscermi in ciò che diceva, in ciò che immaginava, in ciò che provava. Non uso a caso il termine “immaginava”, perché al di là del fatto che la Duras sia stata anche un’importante regista, i suoi romanzi sono pieni di immagini, di visioni che spesso si traducono in parola ma che ancora più frequentemente si traducono in silenzi onerosi, colmi di attese e di mancanze. Lì, dove la parola viene negata, vi è un buco comunicativo che Duras non si affretta a riempire, lasciando al lettore la responsabilità di rispecchiarsi in quella stessa negazione. Ho sempre avuto l’impressione, insomma, che ciò che Marguerite Duras metteva in scena nei suoi scritti fosse un groviglio esistenziale al quale lei stessa guardava con interesse e curiosità, forte del fatto che, come ha dichiarato in un’intervista, “non ho mai scritto credendo di farlo”, sforzandosi anzi – attraverso la forza della parola – di concretizzare e di portare alla luce quanto, fra le complicità del silenzio, non riusciva ad avere esistenza piena. Dunque il suo non è, né sarà mai, un flusso di coscienza; si tratterà piuttosto di scatti di (in)coscienza a cui si alternano in modo quasi ritmico corposi spazi bianchi, vuoti e silenti”.
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