“Era confortante, la solitudine, e la differenza fra quella vita e tutto ciò che aveva conosciuto prima sembrava staccarla un po’ da se stessa, così che riusciva a osservare la propria sofferenza senza risentimento e senza disperazione”. Sylvia Townsend Warner è una di quelle scrittrici a cui dovremmo molto se non ci dimenticassimo puntualmente di onorarle: accade di solito con le anime troppo complesse, con quelle personalità eccentriche, fuori dal coro, che fatichiamo a rincorrere e ad acciuffare. Cancelliamo idealmente ciò che non si lascia ingabbiare e forse è questo ciò che è accaduto a Sylvia. Il pubblico che l’aveva tanto amata quando uscì il suo romanzo d’esordio, “Lolly Willowes o l’amoroso cacciatore” (che in Italia trovate in libreria grazie ad Adelphi), l’ha poi relativamente sottovalutata, accantonandola in un angolo e riscoprendola solo alla fine degli anni Settanta (lei morì nel 1978). Il comportamento dei lettori, però, stupisce solo in parte, giacché gli scritti della Townsend Warner, raffinati e introspettivi, non furono sempre di immediata comprensione”.
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