“La voce della pietra” di Silvio Raffo: una storia gotica e raffinata.

“Chi non ha mai conosciuto le proprie radici, in un certo senso, non ha mai avuto una precisa identità”.

Il problema è proprio questo, l’identità. Che cos’è? Che forma ha? Ma soprattutto, di cosa è fatta? Perché capita a volte di cercare le risposte – com’è giusto e normale che sia – tra le cose e le persone che ci circondano, mancando però di considerare che la materia identitaria, individuale, quella più intima e controversa a cui tutti tendiamo nel corso della nostra vita, possa nascondersi in una dimensione che poco ha a che fare con quella terrena. Quando si hanno poche certezze nell’al di qua, è sempre bene tendere un orecchio all’al di là, come ci insegna Silvio Raffo nel suo romanzo La voce della pietra (Elliot).

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È proprio questo ciò che sembra fare Jakob, ragazzo cupo, introverso e tormentato, che dal giorno della tragica morte di sua madre ha smesso di parlare. Un mutismo volontario, incessante, ottuso, contro cui tutta la sua famiglia, e in particolare la zia, hanno combattuto senza successo. Un giorno però arriva nella lugubre e antica dimora di campagna di Jakob una donna di nome Verena, una sorta di infermiera sensitiva che, rispondendo all’annuncio pubblicato sul giornale dalla famiglia, si recherà in questa villa per prendersi cura del ragazzo. Accadranno, però, delle cose molto strane, fuori e tutt’intorno alla dimora, perché sia Jakob che Verena seguiranno le indicazioni di una voce misteriosa e ultraterrena che sussurrerà loro arcani messaggi dal grembo della pietra. Cosa vogliono i morti dai vivi? E come riusciranno il ragazzo e la giovane donna a salvarsi, soprattutto da se stessi?

“Quello che scrivo qui si realizza solo se ricolmo veramente la parola della sua pienezza e faccio essere ciò che la parola significa”.

Nel romanzo di Silvio Raffo, ove l’elemento della soprannaturalità è contingente, tangibile e soprattutto diventa pura realtà, il potere della parola ha un ruolo primario, se non addirittura preponderante, come si evince anche dalla struttura stessa del romanzo: si alternano parti in cui la narrazione segue il flusso delle azioni di Verena, che parla in prima persona, e parti – scritte in corsivo – in cui invece a parlare, anzi a scrivere, è Jakob. La solitudine di questo ragazzo, nonché la profonda inquietudine che trova sfogo nel suo mutismo, si esplica attraverso l’uso della parola scritta: “l’atto della scrittura presuppone una modifica del cosiddetto reale, un’incisione nella trama degli eventi”, dice Jakob, che considera perfino l’atto della creazione divina strettamente collegato alla parola.

Dunque la forma verbale viene intesa come azione, come vita e come connessione tra verità, pensiero e realtà: ciò che penso si realizzerà nel momento in cui lo scriverò. Jakob parla – solo con se stesso, non con gli altri – ma lo fa affidando tutto alla scrittura; c’è un collegamento tra i suoi monologhi scritti e le voci ultraterrene che lui ascolta e che provengono dalla pietra: la parola, il senso più vero della scrittura, traggono origine dalla pietra, un punto fermo a cui il ragazzo si aggrappa e di cui non può fare a meno, che mette in contatto l’al di là con l’al di qua.

Assistiamo ad un dialogo muto ma serratissimo anche tra Verena e Jakob, un botta e risposta perpetuo che aleggia nell’aria, che si libra nell’atmosfera asfissiante della villa senza però toccare mai terra. Ed è proprio in questo luogo cupo e tenebroso che si dispiega il segreto di un passato che Jakob non ha – non avrebbe mai potuto – dimenticare. I vivi interagiscono con i morti, i morti richiamano a sé i vivi ed ogni cosa sembra sospesa in un bolla senza tempo, dove lo spazio circostante diventa a mano a mano sempre un po’ più angusto, quasi da togliere il fiato.

La penna raffinata e leggera, se pur incisiva, di Silvio Raffo ha costruito un romanzo dal passo serrato, tutto da immaginare, da respirare e da interpretare oltre che da leggere. Un libro riuscitissimo dalle tonalità gotiche e altamente letterarie.

 

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Un’immagine dal film “La voce della pietra”.

Il romanzo, da cui è stato tratto il film “La voce della pietra” con Emilia Clarke, è stato definito da Muriel Spark “un gotico d’avanguardia di intensa potenza visionaria che avrebbe voluto scrivere Edgar Allan Poe”.

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