E’ in libreria per Einaudi il secondo, perturbante romanzo di Nadia Terranova, “Addio fantasmi”, che ci porta ancora una volta nel mitico – oserei direi mitologico – paesaggio siciliano ma questa volta con una passione diversa, un Perché più forte e coraggioso, un Come dalle sfumature più raffinate.
Ida Laquidara, la protagonista di questa storia – che mi piace definire tragedia greca contemporanea, sia per la struttura che per i personaggi e le atmosfere che rievoca – è sposata con Pietro, vive a Roma e per lavoro racconta alla radio le storie degli altri. Suo padre è scomparso dalla sua vita e da quella della madre quando lei aveva tredici anni, non ha lasciato alcuna traccia di sé e il suo corpo non è mai stato ritrovato. Ida ha dovuto convivere con questo dolore sordo e lancinante, che si è trasformato piano piano in un vero e proprio spettro.
Ora, però, a tanti anni di distanza, Ida viene richiamata da sua madre, che le chiede di tornare a Messina per via di alcuni lavori di ristrutturazione dell’appartamento di famiglia, appartamento che la donna vuole mettere in vendita. E’ proprio qui, nella Sicilia del passato e ora anche del presente, che Ida si troverà a fare di nuovo i conti con la memoria, si troverà ad espiare la colpa dei padri che ricade sempre sui figli, e si troverà infine a fare di nuovo i conti con la sé stessa dei tredici anni, con gli oggetti che le ricordano brandelli della sua vita passata, ed infine con i fantasmi.
Ho intervistato Nadia Terranova per capire qualcosa di più dei suoi fantasmi e tentare di arrivare al cuore, alla radice del problema che sta alla base di ogni viaggio di ritorno – qualunque sia la meta.

Da dove nasce l’idea di Addio fantasmi? Da quale esigenza?
Nasce in una stanza, di notte, ed è la voce di una donna che mi somiglia, anche se non sono io, e che è diventata grande dentro un’antica casa di famiglia, segnata da un dolore, da un’assenza-presenza. Nasce dal voler raccontare quella casa e quella famiglia monca.
«Capii in quel momento cos’è davvero una madre: qualcosa da cui non esiste riparo». Eppure, per tradizione, la madre simboleggia il riparo stesso, il porto sicuro a cui approdare. Non è così, per Ida? E per te? Cos’è per Nadia Terranova La Madre?
Per me la maternità non ha a che fare con la biologia ma con quello che scegliamo, di cui scegliamo di avere cura. A volte scelta e natura coincidono, ma non sempre. Anche quando è un rifugio la madre non è un luogo sicuro: è un porto, ma un porto in tempesta. Lo sguardo della madre è un tribunale da cui non ti puoi difendere.
La protagonista, Ida Laquidara per l’appunto, non vuole figli «perché ho paura che muoiano, che scompaiano». È più difficili essere figli o scegliere di essere madri, genitori? E quanto la paura di diventare genitori incide sullo sviluppo dei figli, quanto si trasmette?
Non siamo mai solo figli o solo genitori, siamo sempre interamente persone, e le persone che generiamo, come quelle che ci stanno accanto, se ne accorgono e lo sanno. Trasmettiamo le nostre paure anche se non vogliamo. Essere genitori può essere una scelta scanzonata o un peso incredibile e di solito tutt’e due.
L’assenza, in questo romanzo, si fa presenza tangibile, diviene fantasma e spettro contro cui combattere, forse, ma soprattutto con cui Ida avrà a che fare per ritrovare la se stessa dei tredici anni, quella che ha visto da un giorno all’altro suo padre scomparire dalla sua vita e da quella della madre. Esiste una via di fuga a questo tipo di dolore? Un dolore che non è lutto e non è neanche vita allo stato puro, ma piuttosto un limbo a cui viene costretta una famiglia intera. Come si colmano certe mancanze?
Fuggire e colmare sono due verbi umani da pensare, che però se ci pensi bene non ci portano da nessuna parte: la mancanza non si può riempire. Piuttosto le si vive intorno, finché a un certo punto quel buco sembra più piccolo. Non si è rimpicciolito davvero, è che le cose intorno sono diventate grandi, importanti, e lo sovrastano. Non si supera la perdita finché siamo impegnati a scappare da lei. Il percorso di Ida è doloroso perché affonda le mani nel suo stesso dolore finché non ne tocca il cuore incandescente. Non vedo altra strada.
«Se tu dimentichi, io devo ricordare il doppio. Sei tu che mi fai fare il doppio dello sforzo» dice Ida a sua madre. Che valore ha la memoria e perché la madre di Ida non vuole ricordare? È bene rimanere aggrappati ai ricordi o piuttosto i ricordi servono a tappare dei buchi momentanei?
È bello che tu abbia scelto proprio questa frase. Vedo sempre una sorta di equilibrio nell’esistenza: se una persona non fa qualcosa, ce n’è sempre un’altra a cui toccherà occuparsene. In questa bilancia stanno Ida e la madre, una da una parte e una dall’altra. O almeno così pensa Ida, perché invece forse non esiste nessuna bilancia, bisogna solo lasciare andare.
La Sicilia è l’isola mitica – quasi mitologica, per certi versi – a cui la protagonista torna. Messina è anche la tua città. Cosa significa tornare alle proprie origini?
Tornarci con la scrittura è un gesto dal ricasco potente, perché ora tutto ciò che ho sempre pensato della mia città, il modo in cui l’ho vissuta, amata, camminata, è lì, nero su bianco. Mi ricorda chi sono e in un certo senso mi inchioda, ma al contempo mi libera: ora posso tirare una riga e inventarla di nuovo, come se non l’avessi mai fatto.
Nel romanzo, l’amica Sara rimprovera a Ida un egoismo di fondo che proviene proprio dal dolore per la perdita di Sebastiano, suo padre. Il dolore rende davvero egoisti?
All’inizio sì. Quando si soffre troppo non c’è spazio per gli altri. Poi, piano piano, il dolore degli altri entra nella bolla, si fa strada, e apre a nuovi sollievi, a nuove comunanze.
Ida per lavoro racconta alla radio le storie degli altri; tu, in qualche modo, fai una cosa analoga con la scrittura. Racconti storie. Tue, degli altri, di chi ti è accanto, dopotutto uno scrittore mette la propria vita – e forse anche quella altrui – a servizio della letteratura. La scrittura ha il potere di scacciare i fantasmi?
No. Ma ha il potere di farci giocare con loro.
Sei riuscita a dire addio a tutti i tuoi fantasmi?
No, sono tutti là. Mi guardano, un po’ perplessi di essere stati raccontati.