L’incubo di Hill House: chi è Shirley Jackson?

«Non sai mai quel che vorrai finché non lo vedi bene»: credo sia questa la frase che racchiude il senso intero del libro, la chiave attraverso la quale è possibile accedere al grande castello dell’inconscio magistralmente elaborato da Shirley Jackson ne L’incubo di Hill House (da cui Netflix ha tratto recentemente una fortunata serie tv), nonché il punto debole di ogni personaggio e, parallelamente, l’unica, sola via possibile che l’autrice ha deciso di percorrere per andare a fondo, per scoprire la verità.

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“L’incubo di Hill House” di Shirley Jackson (Adelphi)

Ma facciamo un passo indietro, e prima di addentrarci nei meandri della maledizione di Hill House cerchiamo di capire chi sia Shirley Jackson, una delle scrittrici più terribili, inquietanti e inquiete del Novecento.

Shirley Jackson nasce a San Francisco nel 1916 e muore nel 1965, a soli 49 anni, al termine di una vita breve, faticosa e soprattutto dolorosa: sua madre la considerava “un aborto mancato” e fin da piccola Shirley dovette subire aspre critiche sul suo aspetto fisico. Ma non finisce qui, perché anche dopo il matrimonio con il professor Stanley Edgar Hyman la madre non mancò di criticare le sue scelte di vita, opponendosi fermamente a quell’unione. Unione che, ad onor del vero, fu tutto tranne che felice: dalla padella alla brace, Shirley – che adorava Hyman poiché l’aveva sottratta all’asfittico ambiente familiare – si ritrovò con un marito profondamente maschilista, retrogrado e fedifrago, un uomo molto rigido che “rinchiuse” Shirley in una stretta gabbia coniugale.

Non si sentiva e non era solo una moglie e una madre (ebbe ben quattro figli, al maggiore dei quali dobbiamo il ritrovamento, a metà degli anni Novanta, di uno scatolone contenente numerosi scritti inediti della madre che si trasformò, nel 2015, nel libro Let Me Tell You), la Jackson fu in primo luogo una grande scrittrice, che riuscì a salvarsi proprio grazie alle storie che lei stessa inventava, immaginava, scriveva.

L’incubo di Hill House è tra le opere più celebri – assieme a La lotteria, Lizzie e Abbiamo sempre vissuto nel castello – di quella che veniva chiamata “la maestra di Stephen King”, nonché di colei che amava definirsi una strega.

In quello che sappiamo essere un autentico classico del genere gotico, troviamo il professor Montague che, cacciatore di fantasmi ed esperto di attività paranormali, decide di convocare a Hill House tre persone: due giovani donne, Eleanor Vance e Theodora, e Luke Sanderson, uno dei parenti della famiglia che ha in custodia Hill House. La storia che si nasconde dietro questa casa, certamente infestata da presenze soprannaturali, è quanto di più scabroso si possa immaginare: ci sono di mezzo due bambine, un vedovo e una dama di compagnia dal destino particolare. Nessuno, dopo la morte dei suoi inquilini originari, è riuscito ad abitare Hill House per più di dieci giorni.

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Shirley Jackson

Si intuisce subito che non si tratta semplicemente di una storia di fantasmi, c’è qualcosa di più: è la casa stessa a rifiutarsi di essere un luogo di pace, è la casa stessa ad aver assorbito nelle pareti, nelle porte, fin nei pertugi, l’essenza del Male più invisibile, quello che, silenzioso e discreto, si insinua fra le pieghe della pelle con un lungo brivido per arrivare ad attaccare l’intero corpo e la mente.

Una delle protagoniste femminili, Eleanor, sembra essere quasi certamente il personaggio più fragile ed infelice («Non ricordava di esser mai stata davvero felice nel corso della sua vita adulta.»), una trentaduenne dal conflittuale rapporto con il mondo esterno che ha trascorso gli ultimi anni della sua vita ad accudire la madre ammalata. Le riesce difficile amare qualcuno, parlare con qualcuno, relazionarsi con qualcuno che non sia lei stessa, timida e schiva non per scelta ma per obbligo. Eleanor, però, è anche la persona più sensibile del gruppo, la quale riesce con maggio destrezza a mettersi in contatto con l’al di là – che per lei, forse troppo spesso, sembra combaciare con l’al di qua – ed è anche, in qualche misura, la più paranoica tra gli ospiti di Hill House.

Sembra di rintracciare in questa donna alcuni dei tratti della personalità della Jackson, la quale ammise in uno scritto privato, una sorta di breve nota autobiografica rinvenuta fra le carte recuperate dal figlio, che «il novanta per cento della mia vita si è comunque svolto nella mia testa», esattamente quel che accade ad Eleanor. Lei non vive, a lei non succede nulla, lei respira senza pretendere di far troppo rumore. Solo quando inizia la sua avventura a Hill House percepisce che le sta accadendo davvero qualcosa di sensazionale per la prima volta in tutta la vita.

Dall’altra parte, invece, c’è Theodora, una sorta di alter ego di Eleanor: di lei si hanno pochissime informazioni, a parte il fatto che possiede un temperamento più selvaggio di Eleanor, un carattere meno fragile e che, proprio in virtù di queste facoltà, mancanti nell’amica, viene irrimediabilmente attratta dal suo opposto. Il rapporto che si crea tra Eleanor e Theodora ha qualcosa di morboso, quasi spettrale: due sconosciute che si annusano, si abbracciano e poi si respingono, risucchiate in un vortice oscuro in cui, nonostante tutto, sembrano muoversi benissimo.

«Cessata ogni finzione, ogni esitazione, potevano solo aspettare passive che si risolvesse tutto. Ciascuna sapeva, quasi al millimetro, costa stava pensando e che cosa voleva dire l’altra; ciascuna di loro quasi piangeva per l’altra».

Da un certo momento in avanti si ha come l’impressione che Eleanor e Theodora siano la stessa persona, o meglio, le due facce della stessa medaglia, il lato ombroso e quello più schietto – perfino sfacciato – della medesima identità; anche perché, a ben vedere, Eleanor è un personaggio molto più definito nelle sue caratteristiche biografiche e anagrafiche, e possiede anche un cognome – Vance – mentre Theodora ne è sprovvista.

Il suggerimento rispetto a questa teoria ce lo fornisce il cuore stesso del romanzo, Hill House: la casa raccoglie, contiene e immagazzina le anime di coloro che vi soggiornano, succhiando un’energia che, anziché essere espulsa all’esterno della casa, resta compressa tra le sue mura. Una sorta di implosione avviene ogni volta dentro Hill House, che altro non è che il luogo mitico (e forse anche mitologico) in cui gli esseri umani sono chiamati a fare i conti con i propri demoni. I fantasmi di Hill House non sono che il riflesso dei fantasmi dei suoi abitanti, ecco perché quello che compiranno i nostri protagonisti sarà sì un viaggio negli anfratti più bui della casa dal passato ombroso, ma sarà soprattutto un incubo ad occhi aperti, un’avventura sul filo di lana durante la quale potranno osservare attentamente il baratro che si apre sotto i loro piedi.

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Shirley Jackson e i suoi quattro figli.

Prova del fatto che Hill House è ciò che i suoi ospiti immaginino che essa sia – ognuno con il resoconto personale dei propri guai – è l’affermazione di Luke, agli occhi del quale la casa infestata appare come un luogo materno:

«È tutto così materno (…) Così molle. Così ovattato. Grandi poltrone e divani avvolgenti che quando ti siedi si rivelano duri e sgradevoli, e ti respingono immediatamente… ».

Perché Luke afferma che quella casa così inospitale assomiglia ad un “luogo materno”? Di certo la risposta potrebbe annidarsi nella confessione stessa del giovane, che ammette di non aver mai avuto una madre. Senza dubbio, però, la “sensazione” che ha manifestato il ragazzo si rivela ben differente rispetto a quella di Eleanor, che invece – complici le scritte intimidatorie che troverà sui muri – capisce che, malgrado lei si trovi a suo agio, qualcosa o qualcuno sta cercando di allontanarla da Hill House. Ancora una volta, dunque, la donna non si sente accettata, sa che prima o poi verrà respinta. Di nuovo, la storia della sua vita.

Ogni personaggio a Hill House è dunque pronto – a sua insaputa – a fare i conti con il proprio mondo interiore, che dovrebbe essere, quasi necessariamente, anche il riflesso del nostro modo di relazionarci con la realtà esterna. Chi siamo? Cosa vogliamo? E soprattutto, dove siamo destinati ad andare?

L’incubo di Hill House è un gotico dalla forte impronta psicologica, la cui particolarità è quella di riuscire a trascinare il lettore in un labirinto apparentemente senza soluzione: il lavorio della ragione umana, che si muove instancabilmente sottotraccia cercando di mantenere la rotta, si confonde con la magia della superstizione, con l’urgenza del sogno ed infine con la dura realtà.

Hill House è la proiezione realistica della mente umana in pieno stato confusionale trasportata sul piano della verità.

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