Le donne sono da sempre le protagoniste principali della produzione di Dacia Maraini, che affida ancora una volta alla parola scritta i suoi pensieri, trasformandoli in un intenso ed intimo romanzo dal titolo Tre donne. Una storia d’amore e disamore (Rizzoli).
Quand’è che un romanzo, da semplice libro, si trasforma, appunto, in qualcosa di “intimo”? Sicuramente nella misura in cui trasmette al lettore, senza filtri, una parte di sé e dell’autore; nel caso specifico, la Maraini compie questa delicata operazione attraverso l’utilizzo di una forma epistolare e diaristica che anziché relegare il lettore fuori dal recinto familiare delle tre protagoniste, lo avvicina ancora di più: la riservatezza delle parole di Lori, Gesuina e Maria – figlia, nonna e mamma, così disposte in ordine di forza emotiva – ci toccano quasi fossero una piccola confessione, un segreto rivolto a noi e a noi soltanto, e che per questo dobbiamo custodire e maneggiare con cautela, lasciando da parte pregiudizi ed opinioni – almeno fino alla fine della lettura.
Il romanzo non si compone di una semplice trama (che pure ha un finale sorprendente), la struttura si regge piuttosto su tre vite messe a nudo di fronte alla potenza del pensiero, dell’azione e del verbo: Lori, figlia di Maria e nipote di Gesuina, ha sedici anni e tanta confusione dentro e fuori di sé, una confusione regolata dall’istinto primitivo dell’adolescenza, che è energia e furore, fuoco e vento. È lei il trait d’union tra Gesuina e Maria, due donne profondamente diverse a cui il destino si è divertito a ribaltare i ruoli; se Gesuina è l’instancabile sessantenne curiosa del mondo, ex attrice di teatro che partecipa ancora attivamente a quel pericoloso gioco chiamato amore, e che si sente per questo più figlia che madre, dall’altra parte Maria (un nome che, non a caso, rievoca una ricerca spirituale che poco ha a che vedere con la “volgare” materialità delle cose) è la figlia mite che affonda il naso tra le carte di traduttrice, madre due volte – di sua figlia e di sua madre.
Maria, dall’alto dei suoi sentimenti e dei suoi valori, non contempla la ferocia della realtà, si limita ad arginarla, per quanto possibile, schermandosi con la letteratura; attraverso le lunghe lettere all’amato François, iniziamo a costruire il mosaico della famiglia Cascadei. Anche Lori trasforma le sue riflessioni in parole scritte, affidandosi ad un diario che tiene regolarmente, mentre l’unica ad utilizzare un registratore per cristallizzare gli attimi della quotidianità è Gesuina, che non perde occasione per suggellare il suo ruolo di vera protagonista, come fosse ancora la Mirandolina del Goldoni che recitò in gioventù.
«La mamma ha scritto dalle sue Terre Basse, felice come una Pasqua e cieca come una talpa, osserva i quadri amati con sguardo attentissimo, ma fuori dai quadri, mamma carissima, cosa c’è per te? Possibile che tu vedi solo quello che è falso e non capisci quello che sta succedendo sotto il tuo naso, dentro la tua casa?»
Labile è l’equilibrio familiare, solida la convinzione che da queste donne scaturisce un’energia che si dirama in differenti direzioni: Lori è colei che tiene le “redini emotive” della casa, la ribelle, selvaggia adolescente che sa, vede, sente, agisce; è suo il potere di fare e disfare, di distruggere e di ricucire, mentre Maria, mamma amata e odiata, è una figura eterea, quasi impalpabile, a cui non resta che il ruolo di “traghettatrice”. Lei non fa che creare sul creato, traduce ciò che qualcun altro ha già scritto, traghetta appunto – come fosse una Caronte della letteratura – l’anima di un libro da un Paese all’altro: attende che si compia il miracolo della trasfusione (le parole come sangue che scorre nelle vene e nella penna), con fatica cerca di interpretare, di capire, di cogliere l’essenza del testo originale – un compito gravoso, giacché ogni traduttore sa che anche la riproduzione più fedele non è, per sua natura, paragonabile al modello primario (chissà che la sua passione per Flaubert – di cui sta traducendo “Madame Bovary” – e per i lunghi viaggi in posti esotici con il proprio uomo, non rispecchi quella parte intima dell’autrice a cui si faceva riferimento poc’anzi).

L’importanza della parole, del verbo che diventa azione e sostanza, è il leitmotiv di un romanzo che, prima ancora che sulla natura dei rapporti umani – e forse sulla capacità delle donne di bastare a se stesse, nel bene e nel male – posa lo sguardo sul linguaggio dell’incomunicabilità:
«quello sbattere la porta è un linguaggio più deciso e arriva dritto al cervello passando come una freccia avvelenata attraverso le orecchie»
dice Maria di sua figlia Lori. Il ruolo della tecnologia diventa nullo, Maria rifiuta perfino di usare le e-mail, Lori si rifugia nel diario e nei gesti brutali dell’età; l’unica a fare un uso cospicuo di WhatsApp è Gesuina, la figlia-madre a cui tutto è concesso.
Di tanta incomunicabilità fra le parti non restano che lettere, pagine di diario e un mucchio di registrazioni, a testimoniare che la dimensione individuale rimane l’unica via di uscita per la verità, sia pure in forma di segreta confessione.