“Amarsi un po’ è come bere, più facile è respirare” canta Lucio Battisti, e forse dobbiamo dargli ragione, perché fra le complicazioni della vita c’è anche quella di avere a che fare con un altro essere umano, diverso da noi, con ritmi differenti, ma soprattutto con ambizioni, difetti e pregi dissimili dai nostri.
Chiara Gamberale, che di “amori&persone” ne sa qualcosa, ha sempre cercato di dirci che è tutto tanto facile da diventare difficile, e non perché siamo noi a complicare le cose, a volte è davvero impossibile seguire la retta via, quella tanto cara a Dante ma molto sconosciuta al resto dell’umanità; con i suoi romanzi Chiara, da ormai dieci anni, prova a delineare il fitto mosaico di moltitudini umane che sono al centro della sua scrittura e del nostro mondo – inevitabilmente, infatti, ci siamo dentro anche noi.
C’è voglia di capire, c’è urgenza di azzerare e ricominciare, abbiamo bisogno di analizzarci ancora e con nuovi strumenti, ma per farlo dobbiamo ripartire da dove tutto è iniziato: ecco perché torna in libreria, con una nuova e ricca postfazione di Walter Siti, La zona cieca (Feltrinelli), una storia di amore ma soprattutto di disamore e di ricerca – appunto – che vede protagonisti Lidia e Lorenzo.
Lei conduttrice radiofonica del programma “Sentimentalisti Anonimi”, insicura patologica, ossessionata dalla mania del controllo; lui scrittore narcisista, traditore seriale (ma non per cattiveria, è solo disagio), sfuggente e incontrollabile, vive facendo male agli altri e a se stesso. Il loro amore “sbagliato” è quello “giusto”: i tasselli combaciano, fanno parte dello stesso puzzle, eppure non riescono a completare il disegno.
Manca qualcosa, manca la fiducia per esempio, manca la consapevolezza di sé, manca, forse, la percezione dell’altro come essere umano. Una storia che procede a scatti, tra i singhiozzi di Lidia e le sfuriate di Lorenzo, tra l’amore fatto a letto, insieme, e le lunghe fughe di lui – che scappa da lei, dalla loro casa-non casa, da quell’amore unico e claustrofobico, per poi tornare e ricominciare, riprovare ad essere quel che non è con la consapevolezza che il suo posto è lì, vicino a lei ma non troppo.
Di questa storia, di questo romanzo, dei suoi protagonisti – e quindi dell’amore, della zona cieca, della vita – abbiamo provato a parlarne con Chiara Gamberale.

- La zona cieca del 2008 e ora La zona cieca del 2017. Come si sono evolute queste zone, cos’è cambiato? Chi è oggi e chi era prima Chiara Gamberale?
E’ cambiato il mio rapporto con quella maledetta, benedetta, zona, la parte di noi che a noi sfugge ma che un incontro profondo con un altro essere umano ci può rivelare…Prima di scrivere il romanzo, nel 2008, ero ossessionata dal controllo e terrorizzata di vivere all’oscuro di qualcosa che mi riguardasse. Dalla scrittura del romanzo in poi, invece, ho intrapreso un percorso per accettare il mistero di cui è impastato tutto: il mondo, gli altri, noi…Fino ad arrivare a festeggiare, quel mistero. E a pensare che l’amore non possa che avere a che fare con qualcosa che di noi ci sfugge.
- Come illustri all’inizio del romanzo, la “zona cieca” del titolo fa riferimento alla finestra di Johari, schema inventato dagli psicologi Joseph Luft e Harry Ingham. La divisione è apparentemente semplice: ci sono quattro zone, quella conosciuta, quella cieca, quella privata e quella inconscia, ossia, quello che io so di me, quello che io non so di me, quello che gli altri sanno di me, quello che gli altri non sanno di me. Tu fin dove ti sei spinta, fin dove hai potuto andare e fin dove hai voluto andare?
Ecco, appunto…L’ansia di tenere tutto sotto controllo è tipica di una certa
ipersensibilità che porta a illudersi di potere soffrire meno, più cose sappiamo degli altri e di noi stessi…Ma è, appunto, un’illusione, come imparerà Lidia attraverso la sua storia con Lorenzo e come ho imparato io. Da quel momento, come ti dicevo, ho addirittura cominciato a desiderare quello che tanto mi faceva paura e a benedire solo gli incontri con chi sentivo mi spingesse in territori inesplorati di me e accettasse che io con lui facessi altrettanto. Credo infatti che lo spingerci lontano, soprattutto nella zona cieca e nella zona inconscia, dipenda dalla voglia che abbiamo di conoscerci…C’è chi di voglia non ne ha per niente e così si rifugia nelle altre due zone, molto più rassicuranti certo, dove niente potrà mettere a rischio la nostra identità, ma niente potrà nemmeno mai meravigliarci.
- Lidia, la protagonista, all’inizio del romanzo sostiene che gli esseri umani la spaventano da sempre, eppure cade nella “trappola amorosa” dell’essere umano più sbagliato. Che donna è Lidia? Quanto è tua la sua insicurezza di vivere?
A proposito del sottile limite che separa le nostre paure dai desideri, Lidia è una donna troppo tentata e troppo spaventata dalla vita allo stesso tempo…E io le somiglio molto. Diciamo che dal 2008 a oggi stiamo crescendo insieme, provando a realizzare quello a cui aspira la preghiera degli Alcolisti Anonimi, e cioè a cambiare quello che di noi possiamo cambiare e ad accettare quello che non possiamo cambiare.
- Lorenzo, compagno-amante-“carnefice” di Lidia, durante uno dei loro dialoghi serrati dice: «Io penso alle persone soltanto quando ce le ho davanti agli occhi. Quando non ci sono è come se si spegnessero, nella mia testa». E poi, poche righe sotto, Lidia dice di Lorenzo: «Con quello che non c’era più, Lorenzo intratteneva rapporti ostinati». Questa apparente contraddizione può darci la misura di quanto Lorenzo sia un “intreccio di opposti”, tanto per Lidia quanto per se stesso?
Molto fine questa osservazione: è certamente così. A proposito della voglia che abbiamo o che non abbiamo di entrare in contatto con noi stessi, Lorenzo non ne ha nessuna. Come predisse Tiresia al neonato Narciso:- Questo bambino sarà felice a patto che non si conosca mai.- Da supremo narcisista qual è, dunque, Lorenzo vive di proclami e di principi che hanno poco a che fare con la sua essenza profonda. Essenza che, suo malgrado, Lidia andrà a stanare anche per lui.
- Lorenzo dice a Lidia: «Io non voglio mica perderti. Voglio stare vicino a te per tutta la vita, ma non come un uomo che deve prendersi le sue responsabilità, voglio stare vicino a te come una sveglia rotta». Oggi come ieri sembra esser cambiato poco nei rapporti uomo donna, se pensiamo che questo romanzo lo hai scritto quasi dieci anni fa; chi è, in realtà, il più forte fra i due?
Mah…Credo che sia cambiato poco: se una donna e un uomo si incontrato a un certo livello di profondità e mettono in gioco anche la loro parte più spellata e compromessa, sono tutti e due fortissimi e fragilissimi allo stesso tempo e proprio per questo rischiano di dare all’altro anche il peggio di loro. Ma per lo stesso motivo hanno la possibilità di cambiare, di evolversi. Ognuno per sé e insieme.
- Un’incomunicabilità di fondo si frappone tra i protagonisti, che tuttavia si vedono, parlano, litigano, fanno l’amore. Tutto questo, oggi, sembra quasi aver perso valore: siamo sempre connessi eppure non ci conosciamo, chattiamo per ore ma rifuggiamo il confronto vis à vis, spiamo i movimenti di tutti gli utenti ma non abbiamo mai voglia di raggiungerli. Siamo più soli? E come gestiamo questa immensa solitudine a cui ci siamo condannati?
Sì, io non mi ci rassegnerò mai, ma il rischio di quella solitudine c’è. Mi chiedo spesso se le nuove tecnologie e i nuovi, infiniti mezzi per comunicare, non facciano leva proprio sulla paura di mettersi davvero in gioco e di cambiare…Perché, è vero: non c’è occasione migliore per un essere umano. Ma è altrettanto vero che mettersi in gioco e cambiare è molto faticoso, ci chiama a un faccia a faccia feroce con la nostra storia, i nostri mostri. Tutti pericoli (o avventure…) da cui i social tengono al riparo, se quello che succede lì resta confinato. Il problema, per rispondere alla tua seconda domanda, è che alla lunga non siamo più noi a gestire quella solitudine: è lei a gestire noi. Mentre chissà dove va a finire la nostra parte più primitiva. La nostra occasione di zona cieca illuminata.
- Qualcuno sostiene che la tua scrittura sia priva di spessore, che i temi affrontati siano banali e perfino stucchevoli. Eppure i tuoi libri, dati alla mano, parlano ad un grande pubblico (soprattutto femminile) che nelle tue storie si rivede molto. Ti sei mai chiesta quale sia la cifra del tuo successo?
Davvero, c’è chi dice così? Nessuno me lo ha mai detto in faccia, i colleghi mi fanno sempre e solo tanti complimenti quando mi incontrano o mi spediscono i loro libri da recensire…Bah. Sicuramente però questo romanzo uscito per la prima volta nel 2008 e accompagnato da una meravigliosa rassegna stampa dimostra che quando ero una scrittrice sconosciuta ero molto incoraggiata dalla critica, poi più ho cominciato a essere conosciuta e letta, più quella critica che mi osannava mi ha cominciato un po’ a trascurare: curioso, no? Eppure io scrivo sempre allo stesso modo: parto da un’urgenza che si trasforma in una sfida stilistica. E attorno ai miei libri, grazie ai lettori – che sono donne ma anche uomini- e alla loro libertà, sento sempre un clima di grande attenzione che mi consente di crescere continuamente o almeno di aspirare a farlo. A proposito di zone cieche, comunque, io non so e non posso dire quale sia “la cifra del mio successo”. Ma nella postfazione a questa nuova edizione de “La Zona Cieca” Walter Siti dà la sua opinione sulla cifra della mia scrittura e ha colto davvero qualcosa che a me era sempre sfuggito.
- Sei all’ottavo mese di gravidanza. Qual è la prima cosa che dirai a tua figlia, quando la vedrai?
Non lo so…A proposito di incontro col mistero, non ce ne può essere uno più radicale. Quindi aspetto che lei mi guardi e chissà che cosa le risponderò.

che spettacolo la domanda (e la risposta) sulla scrittura priva di spessore!