Cos’è un figlio? È vita che prosegue da un’altra vita, è esistenza “andante in solitaria” o è necessità di lasciare un segno sulla terra? È eredità? Ma soprattutto, è àncora di salvezza, consolazione nei momenti bui e perfino un luogo a cui tornare? In un certo senso Fioly Bocca nel suo romanzo – che si intitola proprio Un luogo a cui tornare (Giunti) – suggerisce un’idea di maternità non solo come guscio protettivo, come caldo abbraccio che racchiude nuova vita, ma anche come casa che potrebbe ospitare ben due cuori, quello del figlio e quello della mamma, una doppia “salvezza”.
Il romanzo pulsa di tematiche che ruotano attorno al sentimento femminile, inteso come modus vivendi e operandi: Argea, la protagonista, è vittima di un incidente stradale da lei stessa causato, quando, nel cuore della notte, ha investito un uomo che ora è ricoverato nel suo stesso ospedale ma in terapia intensiva. Ad accoglierla al risveglio c’è Gualtiero, fidanzato bellissimo e sfuggente. I ricordi di quella notte iniziano a farsi largo nella mente di Argea, che, preda dei sensi di colpa, vorrebbe conoscere Zeligo, l’uomo che ha rischiato di uccidere. Al risveglio dal coma, Zeligo non possiede che una carta d’identità – testimonianza del suo status di rifugiato bosniaco – e la foto di un bambino, suo figlio. Argea e Zeligo hanno condiviso l’orrore di quella notte, ma molti altri segreti condivideranno nei mesi a venire, quando la loro amicizia diventerà più salda; i dolori di un padre lontano da suo figlio, la storia commovente di Wanda, moglie scomparsa prematuramente, e le difficoltà in cui Zeligo versa, tanto da non poter offrire a suo figlio – ospite della zia – un’esistenza dignitosa, legheranno ancora di più queste vite apparentemente tanto diverse eppure così simili.
Anche Argea ha i suoi scheletri nell’armadio, nonostante il suo percorso sembri privo di ostacoli: è una giornalista e scrittrice affermata, il fidanzato è direttore di una famosa rivista e lei è all’apice della carriera e del successo. Eppure le manca l’amore, quello vero, solido, autentico, e soprattutto le manca un figlio. L’orologio biologico di Argea emette un suono inaspettato, gli anni corrono e il desiderio di maternità si fa ancora più forte.
«Sapere che – almeno in potenza – posso diventare madre ha cambiato i pesi e le forze che agiscono nella mia quotidianità».
Indubbiamente un figlio – la meta da raggiungere, l’aspirazione che ridefinisce le distanze tra te e il mondo – ridisegna confini e prospettive del futuro di una donna, implica scelte consapevoli, una cura costante, amore e tante responsabilità; fra di esse, dovrebbero esserci anche dei doveri che la donna ha verso se stessa, in primis quello di non annullarsi come persona.
Essere madri è un dono e un privilegio, proprio perché possiamo generare nuova vita, ma il figlio è altro da noi, è entità solitaria e pura, da educare, comprendere, avvicinare al mondo. Non è di certo lo strumento con cui salvarsi dalla solitudine o, ancor peggio, l’oggetto dei propri desideri irrealizzati: «Io non sono sola. Lo penso toccandomi la pancia attraverso la maglia del pigiama. Ma subito mi scuote il senso di colpa che arriva dal cercare in quel figlio un conforto, un antidoto all’abbandono. Non venire per me, ma per te, gli dico».
Qual è il compito di una madre? Non quello di forgiare, a propria immagine e somiglianza, uno scudo umano contro le debolezze, ma piuttosto quello di aiutare un germoglio a coltivare idee, emozioni e sentimenti, cosicché, una volta sbocciato, avrà tutto il tempo per fiorire da sé. Fioly Bocca mette subito la donna di fronte al suo limite: la parola madre contiene infinite possibilità di evoluzione, racchiude la pluralità di un tutto che può trasformarsi in guida, modello da seguire, o, in qualche caso, anche esempio da evitare – l’ammonimento dei propri errori deve rivelarsi un mezzo utile alla crescita del bambino. Ma oltre l’affetto e l’apprensione, devono trovarsi, in territorio neutrale, due individui ben distinti, separati e, quando si è fortunati, perfino corrispondenti, ma sempre autonomi.
Un conto è diventare “figli-centrici” – secondo un team olandese di psicologi, i genitori che dedicano tutta la vita a quella dei loro figli, anteponendo il loro benessere perfino a se stessi, sono più felici (chissà i figli cosa ne pensano) – un conto è fare di un figlio il nostro alleato contro la tristezza e la solitudine.
Con grande semplicità e con l’ausilio di una scrittura immediata e intensa, Fioly Bocca spinge il lettore a cercare il suo cammino interiore, la strada che porta a quella casa che è sì, luogo a cui tornare, ma anche porto sicuro in cui sviluppare il pensiero – materno – indipendente.
Mi piace molto questa autrice; di lei ho letto “Ovunque tu sarai” e mi è rimasto nel cuore. La tua bella recensione mi spinge a leggere anche questo!