Mi sto disimparando: non posso rimanere di nuovo sola.

È così. Alla fine hanno vinto loro. Sono tornati, li vedo laggiù in fondo; se non vi sbrigate, farli andare via sarà sempre più complicato. E non perché non possa conviverci, anzi, il dramma è che mi sembrano bellissimi.

Li vedo ovunque, sono i fantasmi della mia solitudine, si muovono per casa senza sbattere le porte, mi trascinano da una stanza all’altra lasciandosi inseguire, e io sono certa che ricomincerò a sorridergli perché la vita – me lo ha insegnato il 2020 – è tutta racchiusa soltanto nelle parole. I gesti si fanno sempre più impalpabili, privi di valore. Allontano il contatto, lo scanso con la scusa dell’obbligo per il bene comune ma la realtà è che desidero rimanere fuori dal mondo.

Il vero orrore è che non lo vivo come una privazione, ma come una chance.

Edvard Munch – The Vampire, 1894

Non potete lasciare che mi allontani ancora una volta dalla normalità, se lo faccio rischierò di scivolare in quel luogo senza spazio senza ossigeno senza finestre e senza incertezze che mi fa sentire al sicuro. Non è giusto, non posso sentirmi al sicuro solo perché tutto è fermo. Devo avere il diritto di guadagnarmi un posto là fuori.

Devo, voglio ricominciare ad avere paura di affrontare la vita, non per colpa del virus, non perché temo il contagio, ma perché mossa dall’obbligo di misurarmi con le mie insicurezze, a tutto tondo. Voglio provare il timore di sostenere un esame cui mi presenterò impreparata, voglio guardare in faccia i miei datori di lavoro e prepararmi al rifiuto, voglio camminare in una strada poco illuminata e raggiungere in fretta casa mia. Voglio provare la paura naturale delle cose per potermi dire che sto sbagliando nel modo giusto e che questa, questa sì è la vita. Non la mia comfort zone, non i miei libri, non le parole a cui mi aggrappo e di cui mi servo ogni giorno per raccontarmi la favola del buongiorno e della buonanotte. La vita è là fuori, certo, ma voi dovete mettermi nella condizione di non rifiutarla. Dovete farmi sentire il peso della scelta quotidiana, della responsabilità di fare le cose per me e per gli altri; non voglio la scappatoia, mi ucciderebbe lentamente, non posso permettermelo.

A poco, a poco svanisce il mio allenamento al confronto, l’altro non è neanche più un nemico, semplicemente *non è*. Non è che una foto, un cellulare, uno schermo, un contenitore, una manciata di parole visualizzate e subito dimenticate.

Una parte di me sta imparando a fare qualsiasi cosa purché non sia *fuori* e *da vicino*, in poche parole mi sto disimparando: l’amicizia, l’amore, le incazzature, le risate. Faccio tutto da sola, lo sguardo fisso di fronte ad uno schermo, le dita intrecciate e il collo teso: la cosa devastante è che penso vada bene così.

Smonto i tasselli della mia coscienza e li metto sotto al divano; non li vedo, bene, sta funzionando. Smonto i sentimenti e azzero le emozioni; mi svuoto, ottimo, sento il corpo più leggero. Mi scompongo e metto in fila i pezzi, li nascondo dove m’illudo di non riuscire più ad arrivare e poi mi consolo pensando che non è colpa mia.

Come si fa a vivere ovattati? Così, si fa così. Lontani, silenziosi, spenti.

Resterà la cosa più spaventosa che questa vita mi ha insegnato.

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