Questa mattina ho aperto gli occhi e, prima ancora di rendermi conto che fosse troppo presto per alzarmi, a voce bassissima, quasi un in sussurro, mi sono detta: “Lui si perde e la raggiunge. Va da lei, ma lei non sa chi sia”.
Ho richiuso gli occhi in una fessura, mi sono alzata e sono andata in bagno. Mentre abbassavo i pantaloni del pigiama continuavo a tenere lo sguardo serrato e a dirmi “Lei non sa chi sia, non lo conosce”. Facevo la pipì e pensavo a lui che si è perso – non so come, non so perché, né in quale grande città si trovi, ma forse è campagna, non ho fatto in tempo a chiederglielo – lui che non conosce la via ma si imbatte nell’unica donna che ha ancora cognizione dei luoghi fisici.
“Lui va da lei, certo, ma lei davvero non lo conosce. Eppure tiene qualche libro in casa, uno è il suo. Potrebbe essere Svevo, sì, quasi sicuramente è lui, ma lei non lo sa, non l’ha mai visto”.
Continuavo a tenere gli occhi chiusi per paura che quel pensiero mi sfuggisse, che corresse da una stanza all’altra prima di prendere la porta e andarsene per sempre.
Sono tornata a letto, sicura di averla agganciata, era mia. Ormai quell’immagine me l’ero fissata in testa mentre continuavo a mimare lo spessore delle parole pronunciate fino a poco prima; potevo persino vedermeli davanti, in piedi l’uno di fronte all’altra accanto ad un albero mastodontico, forse il primo di una lunga serie, un bosco che a Trieste non ho mai visto e probabilmente nemmeno esiste.
Mi sono rimessa sotto le coperte, la luce dell’alba accarezzava la parete più corta della stanza scivolando attraverso i pertugi della persiana. Intuivo il giorno che stava nascendo, un giorno nuovo, identico a quello precedente, identico a quello che sarebbe sorto il giorno successivo.
È questo che mi dà la misura della mia invincibilità. La luce immobile, la certezza dei giorni tutti uguali, il silenzio profondo, nitido, incontaminato; i sogni che si trasformano in pensieri reali, che non scappano perché sanno di non doversi difendere dalla fretta; sogni intatti, quasi monolitici, mai disturbati dalla frenesia del mondo in corsa. È questa la mia forza, la mia fortezza? Il mio castello di sicurezze, il baluardo della mia inespugnabilità, il principio di un manicheismo che rassicura la mia instabilità emotiva?
Mi sto trasformando in una forma di vita alterata.
La quarantena non mi intacca, mi fortifica.
L’isolamento non mi nuoce, mi rassicura.
Chi ha paura del mondo?
No, non io. Io non avevo paura di niente, me lo ripetevo tutti i giorni. Spendevo il mio tempo sui sedili dei treni, mi perdevo a guardare le smorfie di chi viaggiava accanto a me sull’Intercity, ho alloggiato nelle più disparate, splendide città d’Italia (una, due, tre notti al massimo. Ripartire, ricominciare, tornare. Tutti mi dicevano “in quale parte del mondo ti trovi, oggi?”). Toccavo, baciavo, amavo. Ho amato tanto nelle città che non erano mie, forse ho imparato ad amare proprio *là fuori*, subito dietro l’angolo, subito dopo la mia zona di conforto. Oltre la mia paura, oltre la mia solitudine.
Eppure.
Eppure.
Un puntino, un neo, come un moscerino che si agita ai lati dell’occhio.
Io volevo sempre rimanere a casa (la pigrizia, mi dicevano, è soltanto pigrizia. Ma una donna pigra non accetta quattro lavori contemporaneamente, non intavola i progetti più disparati, non si mobilita per creare ponti, collegamenti, nuovi rapporti. Santiddio, non è questa la pigrizia, non sono io la mia pigrizia).
“Che cosa è successo?”
Quest’isolamento mi sta restituendo la vita, l’occhio critico sul mondo. Continuo a rigenerarmi mentre accolgo qualcosa che ho atteso per tanto, troppo tempo. Vivo ogni giorno una solitudine nuova, più corposa, strutturata. Una solitudine che non si è mai permessa di emanare il cattivo odore dell’emarginazione, né quello più nauseabondo della segregazione. La mia rinnovata solitudine profuma dei colori delle stagioni che posso ammirare dalla finestra.
Ho saltato il fosso, sono dall’altra parte del Tempo. Ho ripercorso il secolo all’indietro e ora mi trovo in un’epoca che non è la mia ma a cui sento di appartenere in un modo tanto profondo da disorientarmi. Il silenzio delle strade, la quiete kafkiana del tramonto, poche macchine di passaggio, qualche voce umana in lontananza, come il frutto di un sogno. Non credevo che gli uccelli potessero parlare tanto, né che le foglie potessero agitarsi con tanto entusiasmo. I miei libri bisbigliano un po’ più forte, le pagine sfrigolano e le parole finalmente respirano, hanno tutto lo spazio che vogliono per ingigantirsi e prendere quota, saltando dalla finestra e riversandosi sulle strade, indisturbate.
Tutti sono chiusi in casa, nessuno può vedermi, io non posso vedere nessuno. Non mi fanno più paura le piazze, non mi intimoriscono le ore notturne. Ogni cosa è tornata alle origini, a quando non esisteva niente, e questa desolazione mi consola, mi offre una possibilità. È il preludio al futuro, a quello che sarà possibile. È il momento dello slancio, l’attimo immediatamente prima; sono sola, nessuno mi indica la via, posso finalmente sbagliare. Da quanto tempo non mi veniva concesso il lusso di fallire? Posso fare uno, dieci, cento buchi nell’acqua, e nessuno se ne accorgerà. Posso sprofondare in santa pace e poi accorgermi che non è cambiato niente. Ho fallito e sono contenta di averlo fatto, non sono tagliata per il successo. Oh, Diomio, qualcuno finalmente l’ha detto.
Sono sola, sono al sicuro, posso ricominciare a sognare in grande e a sbagliare tutte le volte che desidero. Ma per il momento lasciatemi ancora qui, nel tempo dell’attesa, nel castello della mia solitudine.
Mamma, aiutami, vieni a salvarmi, perché io così vivo benissimo. Prova a superare il fossato, prova a saltare anche se il ponte levatoio è alzato e i coccodrilli sono affamati – ma forse qualcuno è già morto di stenti. Vieni a salvarmi anche se non hai le chiavi del castello. In fondo, non abito la torre più alta, altrimenti sarei costretta a guardare in faccia tutte le terre del mondo e le stelle dell’universo.
ah nei primi giorni pensavo che la quarantena fosse una vacanza invece è una tortura
A me la quarantena non spaventa ,è vero posso uscire per lavoro ,ma ho imparato ad andare a piedi e godere della quiete della mia città deserta .Osservare il mare ed il cielo che cambiano a secondo della luce e del tempo ..Mi incanto a osservare il volo dei gabbani ,il fruscio delle ali e i loro versi .La cattedrale di San Ciriaco che mi guarda dall’alto e sembra dirmi che andrà tutto bene. Il mare che al porto non è mai stato così blu .I tramonti che mi salutano quando esco dal lavoro stanca perché pulire con la mascherina mi toglie il respiro e mi affatica .La chiesa di Santa Maria della piazza che isolata dal mondo è anche più bella .Poi arriva il venerdì e so che mi aspettano due giorni da reclusa che volano in fretta e mi coccolano come fa il mio gatto .Due giorni senza mascherina dove posso godere del calore del sole che iirradia il io piccolo balcone .Io sono tranquilla perché nella vita ho subito e vinto mille battaglie e so che questa la mia bella patria la vincerà come ha sempre fatto e ne uscirà più forte che mai .Questa quarantena mi fa sognare un futuro diverso ,un futuro che voglio scrivere per voltare pagine e creare un nuovo capitolo della mia vita .
Pensavo di essere “strana”, l’unica al mondo che stesse bene durante questo isolamento e allora non l’ho detta a nessuno questa mia felicità per il silenzio, per la luce, per l’attenzione alle piccole cose fuori dalla finestra, per il permesso di non uscire per forza, di stare a casa assurta a Rifugio con la maiuscola, per la serenità magicamente ritrovata, per il rumore della città sostituito dal chiacchiericcio degli uccelli sugli alberi fuori dalla finestra. Me lo sono tenuta stretta questa piccola felicità segreta, e adesso la ritrovo qui, spiegata magnificamente dalle tue parole… mi hai scoperta, Giulia, e io ho scoperto te… 🥰