Dal romanzo alla serie tv: riflessioni su “Storia del nuovo cognome”

Ammetto senza remore la mia fragilità, prendo coscienza di quello che alcuni potrebbero classificare come “limite”, e dichiaro apertamente che fatico a fare a meno delle storie di Elena Ferrante. Di più. Fatico a fare a meno di quel suo modo melodioso, estatico eppure nient’affatto riguardoso, di dire le cose, di usare le parole.

Ieri sera è andata in onda la seconda puntata della nuova stagione de L’amica geniale – Storia del nuovo cognome e non si può fare a meno di notare quanto ogni singola scena, ogni singola battuta, combacino alla perfezione con il testo ferrantiano.

Da qui in avanti, e per le puntate che verranno, alcune brevi considerazioni, riflessioni semi sparse e pensieri allineati su quanto visto.

Ci sono vari livelli di narrazione (che in questo caso non è tecnica scrittoria né trama letteraria, ma è l’andamento del racconto delle vite dei personaggi) il primo dei quali è quello che riguarda il rione.

Il rione in cui ci si esprime solo in dialetto, quello in cui la polvere si solleva a mezz’aria per far sì che tutti possano respirarla; il rione come luogo non meglio identificato sulla mappa geografica ma dove il tempo si arresta e il progresso non penetra, se non in qualche misero dettaglio – la televisione, l’insegna nuova dell’esercizio commerciale, il millecento che si muove lungo la via principale, il liceo classico per figli di genitori simil benestanti.

Come tutti i non-luoghi a cui viene concessa la parola, il rione diventa subito uno dei protagonisti tanto del romanzo quanto della serie tv. Sono i colori, le luci opache, la mancanza di nitidezza, il caos perenne degli schiamazzi, delle urla, degli insulti in un dialetto profondo, ben radicato, che fanno l’anima di un posto. E il rione ha un’anima grande, di respiro ampio e inclusivo. Per sua natura, ingloba qualsiasi cosa, bambini compresi, per restituirli al mondo degli adulti totalmente corrotti, già compromessi, senza possibilità di riparo.

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Fonte: adnkronos 

«M’è uscito ‘o sang’. Significa che ‘o criatur’ è muort’.»

dice Lila proprio all’inizio della puntata, quando tutti quanti – Lenù, i Solara, Stefano Carracci, Gigliola, Pinuccia e Rino – si trovano nel calzaturificio che sarebbe stato inaugurato il mattino seguente. Calzaturificio Solara, con la gigantografia di Lila vestita da sposa e le scarpe disegnate da Raffaella Cerullo, ovviamente.

Lila, incinta di poche settimane, ha perso il bambino: si è sciolto l’incantesimo, la condanna è esplicita, risolutiva. Lei è una janara, fatta e finita, una di quelle streghe cui i figli non arriveranno mai, perché il suo corpo è come una caverna vuota, lacunosa, piena di oscure intercapedini che restituiscono soltanto l’eco delle maledizioni. È priva di tutto, Lila: buoni sentimenti, affetto, sana predisposizione alla vita, bontà d’animo. È lei che uccide le sue stesse creature perché tiene il male addosso, dentro e tutto intorno: come i mostri in carne ed ossa, esulta quando miete una nuova vittima. È quella la sua grandezza, è quella la sua indefinita gracilità.

Cattiveria, spavalderia, rancore, soddisfazione. Il sorriso beffardo di Lila mentre pronuncia quella manciata di parole – «’o criatur’ è muort’» – racchiude tutta la rabbia repressa, ingoiata, sputata addosso alle persone giuste nei momenti sbagliati, di una donna ribelle e vorace, che distrugge tutto ciò che incontra sul suo cammino donandogli al contempo nuova, preziosissima linfa.

Lila è il respiro del rione, il simbolo di tutto ciò che non cambia, che non si muove. Anche quando sarà lei stessa a rivoluzionare la propria vita, non si spingerà mai realmente oltre il confine prestabilito. È visionaria, luminosa, buia e crudelmente concreta, materiale e materialista, spirituale nella sua affannosa ricerca di qualcosa che vada oltre il limite consentito dall’occhio nudo. Lila azzarda il passo, mette il piede nel terreno sconosciuto eppure rimane fisicamente lì, fissa, intrappolata dentro sé stessa. Il destino di chi riesce a spiare l’orizzonte ma ha le radici nelle scarpe.

Lei, in fondo, il mare non ha mai voluto vederlo.

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Fonte: adnkronos

«Quanto sei brava, quanto sei intelligente. Cocoricò».

Un braccio fuori dal finestrino dell’auto, il sorriso divertito di Stefano accanto a lei. Lila si scaglia contro Lenù, le vomita addosso un groviglio inestricabile di livore, stizza, rammarico e insicurezza. La perfidia di Lila, in quel momento, è il riflesso incondizionato della sua consapevolezza, è l’urgenza di nascondere il suo disagio esistenziale, è l’ammissione definitiva di inadeguatezza al belmondo e alla buona società, quella in cui le famiglie mandano i figli a scuola e i liceali parlano di guerra, di pace e di armi nucleari. È il filo che separa la vita vera nella salumeria da quella tanto desiderata e mai ottenuta, il sogno lontano dell’istruzione e del futuro possibile.

Lenù, in quegli attimi di cattiveria e di dolore, non è più la sua amica geniale, è soltanto l’obiettivo mancato, la porta chiusa, la finestra rotta da cui la luce non filtra più.

Ma Lenù? Lenù chi è? La condiscendenza, la buona educazione, la mitezza e l’ordine prestabilito. Lenù è silenziosa empatia, muro crepato ma non eroso, è la goccia che scivola lenta dal lavandino, l’ultima luce spenta prima di andare a dormire. Non c’è un suo respiro che non sia figlio della razionalità, né una sofferenza che non sia preda della pacatezza. Lenù sopravvive tenendo il passo dietro Lila, arrancando spaventosamente mentre rincorre quell’ombra sfuggente, dai contorni sfumati eppure fatalmente nitidi. Lenù è complice di un’identità fallata, bucata, storpia. Troppe volte è scesa a compromessi con il mondo, e ha rischiato ogni volta di cedere il passo alla debolezza tradendo sé stessa.

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I Solara (pinterest)

Personaggi femminili, personaggi maschili. Protagonisti buoni, protagonisti cattivi. Non c’è distinzione, non c’è soluzione di continuità. Non v’è divisione tra il bene e il male, non c’è volontà di individuare il colpevole: se i Solara – personaggi letterariamente maestosi, perfetti – sono il marchio della spietatezza, della corruzione e della malvagità, se Stefano Carracci è l’emblema della vigliaccheria, della mancata risolutezza, della brutalità dell’uomo cui l’intelligenza viene meno, se Rino è l’uomo minuscolo, quasi insignificante, privo di spessore e colmo di niente, Lila non è di certo l’eroina del mondo dei giusti. Perfino Lenù, ricoperta da un pesante tessuto di correttezza e di spiccato senso del dovere, nei momenti più salienti sfodera la grandezza dell’essere umano più abietto, l’egoismo.

Elena Ferrante, e di conseguenza Saverio Costanzo, costruiscono un mondo fatto di gente viva, che scalpita dietro la porta delle case popolari, che allunga le mani per metterle addosso a qualcun altro, che ruba i soldi, che tradisce senza pietà e che non si piega al volere di Dio, ma solo a quello del proprio desiderio.

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5 Comments

      1. Pratolini e la Ferrante descrivono delle realtà analoghe, quindi il mio commento non era off topic. E anche se lo fosse stato, potevi domandarmelo in maniera meno acida.

  1. Sto leggendo l’ultimo volume. Ho trovato i libri precedenti meravigliosi e sono certa che anche l’ultimo non sarà da meno. Adoro il modo di descrivere i luoghi e i personaggi, e la fiction non ha deluso come spesso, purtroppo, accade.

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