«Tu invece» riuscì a rispondere, «scrivi come se andassi in battaglia. Cos’è, Moore? Contro cosa combatti?»
Lei si appoggiò alla ringhiera e rifletté su quella domanda. «Contro la stessa cosa dalla quale tu fuggi, immagino. Nella vita o si combatte o si fugge. Io scelgo di combattere.»
Non pensate che sia il classico horror, non pensate di poter prescindere dalla valutazione psicologica di tutti i personaggi, e non pensate che quella descritta da Scott Thomas sia la paura provocata dai soliti fantasmi, dalle solite presenze paranormali e dalle solite dimore infestate. Niente di tutto questo ha davvero a che fare con Kill Creek (Rizzoli, 2019, 501 pagine), eppure allo stesso tempo, di tutti quelli che potremmo considerare elementi tradizionali del genere gotico e orrorifico (luoghi abitati da demoni, fantasmi di donne anziane e invalide, sensitivi dai segreti inconfessabili), Kill Creek se ne serve, anzi, a tratti ne è addirittura portavoce.
Ci troviamo in America, o meglio, la casa in questione – quella delle sorelle Finch, che si erge sul Kill Creek – si trova nel cuore del Kansas. Dopo la tragica morte del primo proprietario, John Goodman, e della sua giovane moglie di colore, la casa è stata occupata da Rebecca e Rachel Finch, le uniche persone che abbiano avuto il coraggio di acquistare quell’enorme e magnifico edificio nonostante le brutture di cui era stato spettatore e le voci che circolavano sul suo conto. Dopo la morte delle sorelle – una delle due paralizzata sulla sedia a rotelle – la dimora sul Kill Creek venne abbandonata, vittima dell’incuria e soffocata dalla erbacce. Dunque, anche la spaventosa storia che l’ha resa protagonista indiscussa dell’immaginario collettivo per tanti anni – complice anche il dottor Adudel, che su invito di Rebecca Finch visitò la casa prima che lei stessa morisse, ricavandone un memoir che diventò nel giro di pochissimo tempo un bestseller – minacciò di essere dimenticata del tutto.
A dare nuova vita alla casa e soprattutto a rinverdire l’interesse attorno alle tragedie che si sono consumate al suo interno, ci ha pensato un ricco e giovane blogger di nome Wainwright, che decide di intervistare quattro famosissimi scrittori di letteratura horror nella casa delle Finch, proprio la notte di Halloween. Sam McGarver, T.C. Moore, Daniel Slaughter e Sebastian Cole entreranno nella casa abbandonata sul Kill Creek e da quel momento in avanti niente sarà più come prima.
«È questa la chiave del vero orrore» disse Sebastian con una fiducia che nessuno di loro poteva mettere in dubbio. «Se credete che sia vero, allora è vero.»
Potremmo dire che tutto parte da questa frase, pronunciata dal più celebre tra gli scrittori horror presenti nella casa, Sebastian Cole. Il filo conduttore che accompagna le vicende dei singoli protagonisti, e poi dell’intero gruppo nella loro avventura, è il tema della paura, dell’orrore, delle inquietudini interiori più che di quelle esterne.

Il messaggio, arrivati a neanche metà del libro, è abbastanza chiaro: tutto ciò che vi turba non è quel che si trova al di fuori di voi, ma è quel che vi portate dentro, più o meno da sempre. Demoni e fantasmi del passato, la potenza di un trauma, l’energia della memoria che, quando meno te lo aspetti, colpisce alle spalle e ti stende in un baleno. Tutti e quattro i personaggi principali – oltre a Wainwright, che pure viene analizzato in misura minore – ci vengono descritti come individui dalle voci nitide, ben riconoscibili, ognuna connotata da un elemento distintivo che li qualifica anche dal punto di vista professionale e letterario.
Moore, la ragazza violenta; Sam, l’uomo irrisolto; Daniel, il cattolico che gioca a scrivere l’horror per adolescenti; e Sebastian, il veterano che nel male trova sempre il tassello mistico, quasi spirituale. Se ad uno sguardo iniziale ci accorgiamo che Scott Thomas ce li presenta come personaggi piuttosto statici, quasi bidimensionali, dilungandosi nella prima parte del romanzo a fotografarli nel loro ambiente naturale, quello in cui vivono e scrivono, da metà in avanti, precisamente dopo la loro prima sortita nella casa sul Kill Creek, la situazione cambia in modo considerevole.
Nessuno si ritrova ad essere uguale a ciò che era prima, qualcosa si è insinuato nelle loro esistenze e sta cercando di far emergere il loro lato buio, quello più recondito. La dimora delle Finch non nasconde a tutti i costi qualcosa di sconvolgente a livello soprannaturale, ma è proprio l’energia psichica altamente negativa di quel luogo ad aver insediato la mente dei protagonisti, al punto da suscitare in loro visioni e fantasie paranormali che non hanno necessariamente a che fare con il presente, ma più spesso scavano nella loro vita passata. È questo continuo cortocircuito con il passato, con i traumi che hanno caratterizzato il loro percorso – e che li hanno resi gli scrittori che sono ma anche gli esseri umani che probabilmente non avrebbero voluto essere – che genera l’orrore di cui parla Scott Thomas.
Ed è proprio il nostro autore che, riferendosi alla dimora delle due sorelle, ci insegna dove risiede il punto di giuntura tra l’essere umano e il male:
«Quando la gente dimentica, quando il nome “Kill Creek” esce dall’immaginario collettivo, il potere che abita nella casa perde forza. È questo che, secondo me, voleva dire Rachel quando le ho chiesto perché dovevamo inventarci una storia. “Per la forza” aveva risposto».
Ciò che dimentichi smette di respirare ma non di esistere; dunque, ogni volta che lo risvegli, torna ad aggredirti con una veemenza rinnovata. Questo accade a Kill Creek, a John Goodman, a Rachel e Rebecca Finch, ma questo è ciò che accade anche a tutti gli altri personaggi, che si troveranno a fare i conti con una casa che li mette, semplicemente, di fronte al fatto compiuto: il mostro non è fuori, ma è dentro di te. Il mostro sei tu. Da sempre.
Se da un lato Kill Creek può entusiasmare gli amanti non della letteratura horror ma di quella gotica, dall’altro lascia una scia di delusione proprio nelle ultime cento pagine, con un’evoluzione abbastanza splatter di questa avventura nella casa infestata. Troppa violenza non richiesta, troppi passaggi poco sfumati, a tratti eccessivamente distanti da un’ipotetica realtà. Insomma, per suscitare angoscia nel lettore si sarebbe potuto osare anche meno, e continuare a giocare tutto sui toni psicologici del “vedo non vedo”.
Tirando le somme, tuttavia, lettura più che valida, sebbene lo stile non sia sempre all’altezza della tensione emotiva che si accumula per tutta la durata delle prime quattrocento pagine.