Joyce Carol Oates e i limiti dell’impossibile

“L’arte della tragedia scaturisce dalla crepa che divide l’io dalla comunità, da un senso di isolamento. Alla sua base c’è la paura”.

Nel 1972 l’allora trentaquattrenne Joyce Carol Oates pubblicava per la prima volta “The Edge of Impossibility: Tragic Forms in Literature” (apparso oggi per la prima volta in Italia grazie al Saggiatore con il titolo “Ai limiti dell’impossibile”) e cominciava la sua analisi – profonda e visionaria, lambendo le rive del trattato filosofico – sui testi di Shakespeare, Dostoevskij, Mann, Yeats, Čechov, Ionesco e Melville. La sua posizione è chiara fin da subito: caro George Steiner, cari critici, cari tutti, la tragedia non è morta. Quella della Oates è un’indagine affilata, implacabile negli abissi dell’animo umano attraverso le forme del tragico a trecentosessanta gradi, una ricerca minuziosa volta a sottolineare l’aspetto più importante della tragedia: la doppiezza, le contraddizioni, il lato oscuro e il lato luminoso, quello pericoloso e più prossimo al burrone in cui viaggiano gli eroi e gli antieroi dei grandi capolavori della letteratura”.

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