Di Vittoria in vittoria: intervista a Barbara Fiorio

“Ricordarci chi siamo grazie a una foto, ecco cos’è la fotomanzia.

Ricordarci chi siamo attraverso gli occhi di chi ci vede e ci ascolta”.

Mettete una donna che è stata appena lasciata dal proprio fidanzato, quello con cui aveva ipotizzato un’idea quasi certa di futuro, quello che, oggi, le sembra irriconoscibile, un’altra persona, trasformato dall’ingordigia dei social, mutato dal fabbisogno di Facebook e del pubblico dei followers.

Mettete un gatto bianco e nero, mettete una casa in cui la nostra suddetta donna-eroina, che fino a quel momento aveva abitato con il suddetto Lui – Federico – non riesce più ad entrare perché le ricorda tanto, troppo, tutto. Mettete un’amica del cuore, un’amica storica, un’amica pazza e un lavoro che non c’è più. Quello di fotografa. Mettete, però, anche una passione e soprattutto un grande talento.

Mettete infine una possibilità, uno scherzo del destino, uno sberleffo della vita: metteteci dentro i tarocchi, la fotomanzia, l’arte di guardare dentro e fuori le persone. Ecco, mettete anche le persone, e quella straordinaria capacità della nostra donna-eroina di capirle, di lasciare che si scoprano, che si raccontino. Che si (ri)trovino.

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Ecco qui: avrete Vittoria (Feltrinelli, 2018), che non è solo il titolo dell’ultimo, delizioso, affascinante (e molto, molto divertente) romanzo di Barbara Fiorio; Vittoria è anche il nome della protagonista di questa storia, in cui i social network e il loro “lato oscuro” si intrecciano alla vita delle persone, in cui le persone stesse si mescolano fra loro – attraverso le parole, le immagini, le fotografie, i pensieri e le confessioni.

Grazie alla profonda crisi professionale ed esistenziale che attraversa Vittoria, il lettore si addentra nei meandri della propria storia, quella che appartiene ad ognuno di noi e che si riflette, in questo caso, in una pratica tanto discutibile quanto veritiera: quella dei tarocchi. Perché sì, proprio con i tarocchi, si intravede in questo romanzo un fil rouge che collega la fotografia, la cartomanzia e la psicologia di tutti coloro che dei tarocchi ne fanno uso – più o meno cosciente, più o meno sconsiderato.

Ho fatto due chiacchiere con Barbara Fiorio, perché oltre ad un’indiscussa ironia, questo romanzo è fatto di carne e di passione, di spigolosità, di ossa sporgenti e di tanti sentimenti. Proviamo a capire meglio chi è “Vittoria”.

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Dal sito dell’autrice http://www.barbarafiorio.com

Da dove nasce l’idea di “Vittoria”? Qual è stato il percorso che ti ha portato dritto a lei?

È lei che è arrivata. Ero in un periodo piuttosto difficile, con un lavoro precario e molto singhiozzante e una crisi creativa paralizzante. Ero convinta di aver esaurito sia le idee per nuove storie da raccontare che la capacità di scrivere. Come quando ti rompi un braccio e diventa all’improvviso difficile, se non impossibile, fare tutte quelle cose semplici e quotidiane che prima facevi senza neanche pensarci. Solo che, se ti rompi un braccio, ci sono un gesso e un medico a ricordarti che c’è una scadenza per quella “disabilità”. Se ti si “rompe la creatività” ti senti amputata e basta. Non sai né quando né se passerà.
Ero in quel punto della mia vita, dunque, con due o tre anni più di Vittoria, quando lei mi ha picchiettato sulla spalla. Come avrei fatto io se fossi stata lei? O meglio, come avrebbe fatto lei se fosse stata me?

La nostra protagonista (e dico nostra, giacché scommetto che in molte la sentiranno “propria”) ha la mania di compilare liste di cose da fare/dimenticare/a cui tendere/su cui sperare. Anche tu sei una maniaca delle liste?

Molte e molti, sai? Da quando è uscito Vittoria ricevo mail e messaggi molto belli anche da uomini che si sono identificati in lei. Dal dolore per amore all’angoscia per la mancanza di un lavoro, dalla difficoltà di ricrearsi e rimettersi in piedi quando ci si sente completamente a terra, senza più la forza di credere in qualcosa, a cominciare da se stessi.
Fare una lista può sempre essere utile! 🙂
Sì, sono anche io una maniaca delle liste. Ho anche delle regole, per le mie liste: vanno scritte a mano e con la penna blu, le si possono scrivere ovunque purché sia ovviamente carta e non ci siano altre scritte su quel lato (per intenderci: va benissimo anche usare il retro di fogli di scarto), le voci vanno smarcate man mano, le si buttano via quando si completa la lista.

Le uso per: la spesa, la valigia (anche borse per star fuori una notte), le commissioni da fare in giornata se fuori casa e poi c’è un libretto delle Cose Da Fare Appena Posso che possono avere anche tempi dilatati. Ma di solito l’uso delle liste è pratico e immediato.
Se non vi sono già sembrata abbastanza control freak finora, aggiungo il fatto che, se vado a fare la spesa e compro qualcosa che non è in lista, lo scrivo e lo smarco. Già…

E l’altra domanda, direbbe qualcuno, sorge spontanea: hai mai provato a fare i tarocchi? E, al di là che questa pratica ti sia vicina o meno, come sei arrivata alla cartomanzia e poi alla formulazione – geniale – della fotomanzia? Sono due elementi che ti affascinano?

Ai tempi del liceo e forse anche qualche anno dopo, ero molto affascinata dall’esoterismo. Del resto avevo passato un’infanzia totalmente affascinata dal fantastico, forse era inevitabile curiosare anche nel mondo occulto. L’ho sempre fatto, però, con grande scetticismo e divertimento. Curiosità, sì, mai sfociata in convinzione. Da ragazze ci si faceva spesso “le carte”, era un gioco, era divertente, era un “perché no?”. È un po’ lo stesso approccio che ho con ciò che mi sembra stuzzicante anche se senza fondamento realistico o scientifico: se è bello crederci e non danneggia nessuno, perché no?
Però, per me, i tarocchi sono come il greco antico quando ero al liceo: lo leggevo perché avevo studiato l’alfabeto, intuivo qualcosa perché ne avevo studiato la grammatica, ma non c’era verso che riuscissi a darne una traduzione sensata (compensavo con le interrogazioni di letteratura greca che adoravo). Insomma, posso dirti a grandi linee cosa significano gli arcani maggiori, del resto i simboli, gli archetipi, mi sono sempre piaciuti moltissimo, ma collegarli e capire cosa potrebbero significare in quella formazione è tutta un’altra storia. Serve un istinto che io non ho. Temo di essere troppo razionale per divinare.
Quanto alla fotomanzia, quella l’ho inventata. Mi affascina in quanto idea che mi ha divertito per scrivere questo romanzo.

 Dice Vittoria: “Sono anni che osservo le persone e le fisso nelle mie fotografie, altro che tarocchi”. Eppure si delinea, leggendo il libro, un filo diretto tra i tarocchi, la fotografia e lo “studio” delle persone. Dunque, la fotografia è in fondo un modo per guardare dentro le persone catturandone, paradossalmente, la “parte superficiale”, quella che resta impressa in un’immagine?

Questo devi chiederlo a un fotografo. Secondo me, la capacità di vedere dentro le persone è una caratteristica più personale, non penso che tutti i fotografi la abbiano, come non penso che la abbiano tutti gli scrittori quando creano personaggi. Si tratta di empatia. Certo, l’esperienza può compensarla in parte: se sei abituata ad avere davanti persone da fotografare, credo che dopo un po’ sia inevitabile (a meno che tu non sia un totale narcisista) notare quei piccoli dettagli che di quella persona ti dicono molto. Ma resta una caratteristica personale, secondo me. Sono stata fotografata da diversi fotografi ma alcuni hanno solo evidenziato i miei difetti, senza preoccuparsi che quello potesse mettermi in imbarazzo, che io non volessi essere poi vista così. Altri hanno esaltato pregi, ma anche quello mi fa sentire poco autentica, poco “me”. Poi c’è chi, come Sara Lando, la mia fotografa ufficiale e a cui mi sono ispirata per creare Vittoria, sa vedere le persone e sa portare alla luce anche lati di te che magari nemmeno tu vedi, ma che sono belli, perché lei – lo si percepisce dai ritratti che fa – quando fotografa qualcuno è come se lo amasse, in quel momento, come se lo proteggesse e lo aiutasse a essere la parte migliore di se stesso. O gliela mostrasse dopo.

Uno dei temi cruciali attorno a cui ruota il libro, e dunque la storia di Vittoria, è l’affaire social network. Che rapporto hai con Facebook, Instagram e Twitter?

Conflittuale. Ho lavorato oltre vent’anni nella comunicazione quando non c’erano i social e mi sembrava tutto più di qualità, più professionale. Allo stesso tempo è innegabile il potere che hanno i social (come internet stesso) di annullare le distanze e i tempi. Come è innegabile che possa esserci qualità e professionalità anche lì, ci mancherebbe.

Ma io vengo dal mondo dei blog quando in Italia erano pochi, di nicchia e quasi mai con i veri nomi, forse ci si prendeva meno sul serio, c’era meno personalismo e un po’ più di selezione, non si rincorreva (parlo in generale) la propria visibilità, non si coltivava il culto di se stessi come vedo accadere adesso (per fortuna non a tutti), ma invece ci si divertiva, si raccontava ciò che interessava, si creavano comunità spontanee, si abbattevano le sovrastrutture e si era molto autentici (sempre in generale, il narcisismo è sempre esistito, per carità). Grazie a quei dieci anni da blogger sotto nickname non solo ho sperimentato la mia scrittura ma ho conosciuto persone straordinarie che altrimenti non avrei mai avuto modo di conoscere per differenze di età, città, professioni, mondi. Invece, ancora oggi, fanno parte della mia vita e ne sono molto felice.
I social hanno un po’ annientato questo spirito, questa almeno la mia sensazione, e vedo sempre più gente che si improvvisa esperta di qualcosa in modo del tutto autoreferenziale o gente che approfitta del filtro dello schermo per attaccare, criticare, offendere, a volte anche insultare o gente che diventa dipendente dai like, dalle visualizzazioni, dai contatti, del consenso, gente che sente di dover comunicare al mondo ogni minima azione immortalando se stessa e qualunque altra cosa – che sia un piatto o un concerto – come se, per essere vero e gustato, debba essere anche condiviso con un imprecisato pubblico.
C’è poca autoironia, secondo me. Come dice Vittoria: ci si prende terribilmente sul serio.
Detto ciò, io sono attiva su Facebook come lo è Vittoria, e come lei ho un forte senso del pudore, della riservatezza e della dignità, non ho mai mostrato sui social i miei baratri, le macerie in cui posso essermi aggirata, lo sgomento e il dolore. Può essere successo giusto in alcuni casi particolari, come quando ero in un ristorante di Belleville la notte degli attentati a Parigi e per un paio d’ore ho seriamente creduto che sarebbero passati anche da lì o come quando è morto un mio gatto storico, compagno per sedici anni, ma non sono mai scesa troppo nel personale.

Poi, chiaro, su Facebook mi diverto, racconto, metto foto, ci gioco, lo uso anche molto per comunicare le mie attività, come le presentazioni e i laboratori di scrittura, è il mezzo più semplice per contattarmi, so di essere rintracciabile rapidamente, in quel modo, come essere su delle Pagine Gialle interattive. Ma, per dire, sul cellulare non ho neanche installato la app.
Non mi sono, invece, mai trovata con Twitter: ci ho provato ma non sono entrata nel meccanismo e ormai lo uso solo per condividere i cinguettii delle persone che mi taggano, perché mi arrivano le notifiche, sennò mi scordo di averlo.
Temo che anche Instagram farà la stessa fine, che io ci provo, ho anche filmato il mio gatto, Brodo, per capire come si fanno le stories (e non credo di averlo neanche fatto bene) ma non mi ci oriento (se pensi che il tuo messaggio privato ho scoperto di averlo solo due giorni dopo che me lo hai mandato!).
Dei social mi spaventano due effetti, in particolare. Prima di tutto il tempo che si mangiano: non te ne rendi conto e quelli che ti sembravano dieci minuti si rivelano essere quaranta, passati a far niente, a scorrere la home, a leggiucchiare qua e là, a mettere like, a sorridere a commenti e non ti lasciano nulla. Poi, ma credo sia una conseguenza, la pigrizia mentale a cui ti abituano e il depauperamento dei pensieri e del vocabolario.

 “Credere che Facebook sia solo uno strumento è come credere che la politica sia solo un concetto, che la cicuta sia solo una pianta e che la Apple faccia solo computer”, dice Vittoria ad uno dei suoi clienti. È dunque vero che Facebook non è solo uno strumento? Non è, in fondo, un campo neutrale che viene poi utilizzato, arricchito e finanche vandalizzato dall’uomo?

Non sono d’accordo, non credo affatto che sia un campo neutrale.

Nell’arco degli anni sono stati fatti anche diversi esperimenti, scientifici e artistici, su cosa arriva a fare l’uomo se lasciato libero di farlo, se deresponsabilizzato. E i risultati, sempre, sono stati agghiaccianti. Cito due esempi molto noti: l’esperimento di psicologia sociale di Milgram e la performance Rhythm 0 di Marina Abramović.

Facebook in particolare, per come è strutturato, è un’arena dove tutti sono lasciati liberi, ma non con la libertà consapevole di una società evoluta e strutturata, bensì con la libertà dello stato brado.
Prendi un telefono, non uno smartphone, un normale telefono: è uno strumento, solo uno strumento. Certo, puoi anche usarlo per minacciare, per insultare, che stalkerare qualcuno, ma resta solo uno strumento, non crea una dipendenza, non ti trasforma. Facebook sì, i social sì, gli smartphone sì: creano dipendenze, sono ormai riconosciute ufficialmente, vengono studiate, affrontate e curate come dipendenze.
Per cui no, non credo davvero che sia “solo uno strumento”.

Prendo ancora spunto dalle parole di Vittoria e della sua storia con Federico per arrivare alla domanda: “Siamo al punto in cui un uomo deve prevenire l’accusa, al punto in cui, per una donna, certe colpe sono quasi implicite. Quanti inferni abbiamo passato, per ridurci così”. Nel tuo romanzo analizzi con grande cura il rapporto fra uomo e donna, e lo fai non solo attraverso la vicenda della protagonista, ma anche attraverso le storie – e gli scatti – dei clienti di Vittoria. A che punto siamo arrivati, secondo te? Chi sono, oggi, l’uomo e la donna, e come si relazionano?

Credo che a una domanda del genere possano rispondere giusto gli esperti del settore, sociologi, psicologi, studiosi nel campo. Io al massimo posso parlare per la mia esperienza personale, diretta e indiretta, e quello che mi pare di vedere è una forte tendenza all’usa e getta in campo sentimentale. Non c’è più la tenacia e la volontà di dedicarsi, impegnarsi, anche sacrificarsi e faticare per salvare un rapporto di coppia (se merita di essere salvato, si intende). Vedo coppie belle, che hanno saputo creare famiglie unite e gioiose, infrangersi dopo diversi anni insieme (e a quell’età in cui ci si sente ancora giovani ma manca poco a non esserlo più) perché si è stanchi, perché si è abbagliati da qualcosa di nuovo e intrigante e non si è più capaci di rinunciare. Vige molto la regola del “Fa quel che vuoi, fa ciò che ti senti” che va benissimo per delineare i confini della propria identità, ma non può essere alibi o pretesto per il proprio egoismo a scapito di persone che ci amano e ci vogliono bene.

Credo sia un po’ superficiale, forse infantile, pensare a un rapporto di coppia da favola e gettarlo ai granchi quando finisce la favola e – sorpresa! – si presenta la realtà. Poi, è chiaro che se davvero qualcosa non va, se ci sono problemi seri, se il rapporto è tossico, se si è profondamente infelici o anche peggio, è un grande gesto di amore verso se stessi quello di uscirne e ricostruirsi un progetto di vita. Ma mi intristiscono molto quelli che se ne vanno perché non sentono più il batticuore o le tipiche farfalle nello stomaco.

È poi così vero che le crisi esistenziali sono “un lusso da egoriferiti”? Sono molto, molto curiosa della risposta.

Se sia vero o no non lo so, posso dirti che lo pensa Vittoria e lo penso anch’io. Ovviamente non sto parlando di problematiche diagnosticate, non sto dicendo che gli esaurimenti nervosi, la depressione o altre patologie riconosciute siano fesserie, affatto, anzi, quelli sono problemi seri e vanno trattati come tali. Per crisi esistenziali intendo altro che penso e spero di aver mostrato nel libro. È un po’ il discorso che facevo nella risposta precedente. Forse sarebbe meglio dichiararsi disinnamorati, insoddisfatti di qualcosa, frustrati da qualcos’altro, confusi su decisioni da prendere o addolorati e bisognosi di più attenzione del solito piuttosto che dichiarare crisi esistenziali e di fatto autorizzarsi, con questo vessillo, a travolgere le persone di cui ci si vuole liberare perché in qualche modo, adesso e contrariamente a prima, ostacolano una libertà di cui si sente il bisogno. È tutto un po’ tanto concentrato su se stessi e mi viene da pensare ai tempi in cui i problemi erano la guerra, il lavoro, il cibo, le malattie, problemi concreti, di vitale importanza, e forse c’era poco spazio per andare in crisi alla ricerca di se stessi. Non sto ovviamente auspicando il ritorno di quei tempi, ma ho come la sensazione che ce la si raccontasse meno, ecco.

 Come vedi il tuo futuro? Descrivilo in tre aggettivi, così cari a Vittoria.

Mi piacerebbe che fosse leggero, gioioso ed estremamente appagante. Arrivata alla mia età direi che è il tempo del raccolto, spero – ne uso altri tre – abbondante, succulento e molto divertente. Chi mi conosce sa che preferisco ridere. Ma di gusto, con intelligenza. Sennò non vale.

 Come definiresti il tuo libro? Lo so, è una domanda bestiale, ma provaci con altri tre aggettivi.

Vero, perché quello che vive Vittoria lo vivono tante persone.
Onesto, perché Vittoria non se la racconta mai, può essere disorientata e cercare di capire qualcosa che non capisce ma non se la racconta; perché si sente fallita e non si illude di non esserlo; perché vede le ipocrisie, la incoerenze, gli egoismi e li chiama per nome; perché sta come si sta quando si è in quelle condizioni, senza sconti.

Ironico, perché nel dolore e nella fatica di Vittoria non manca mai quella sana e salvifica dose di ironia, che non è mai superficialità, anzi, che permette di scavare in profondità con lo sguardo leggero ma acuto.

E aggiungo epico, perché io ho un po’ un debole per l’epica e, dannazione, Vittoria se la merita, dai.

Quale carta dei tarocchi sceglieresti, per te?
Be’, facile: Il Carro, Vittoria.

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Dal sito dell’autrice http://www.barbarafiorio.com 

AVVISO AI NAVIGANTI:

Dal 27 aprile al 3 giugno i lettori verranno invitati a dare spazio alla loro creatività ispirandosi a Vittoria, l’omonima protagonista del libro di Barbara Fiorio, che lancia un progetto su instagram chiamato “Uno scatto per i tuoi pensieri”. I lettori dovranno fissare un pensiero o un desiderio in una foto e condividerla sui propri canali con una citazione del libro che li ha ispirati. A Milano durante l’evento del  30 maggio a la Feltrinelli Duomo i lettori presenti potranno sfidare la sorte pescando un tarocco e i più fortunati avranno la possibilità di farsi ritrarre da Sara Lando. Grazie alla collaborazione di Fuji Italia potremo stampare live le foto più originali.

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