Se la lingua italiana non è più di moda

scuola

Il MIUR dà un calcio all’italiano”, è questo il titolo del contributo di Claudio Marazzini, Presidente dell’Accademia della Crusca, che si è espresso riguardo al nuovo bando pubblicato il 27 dicembre scorso dal Ministero dell’Università e Ricerca per il Prin, cioè il finanziamento dei progetti universitari di interesse nazionale. La polemica nasce dall’obbligatorietà di presentare i suddetti progetti in lingua inglese, e solo facoltativamente in italiano.
In molti sono insorti, turbati dal fatto che un’eventuale proposta sullo studio della letteratura italiana presentata in lingua inglese dovrebbe essere giudicata nel merito da qualcuno che quantomeno conosca alla perfezione la lingua italiana. Dunque, che senso ha?
Non bastava il nuovo bando a portare scompiglio nel mondo della ricerca, perché ora il ministero dell’Istruzione, presentando le nuove linee guida per la prova di italiano all’esame di terza media, sembra aver tagliato fuori anche il tema letterario, sostituito da tre nuovi generi di prova (sintesi degli elementi essenziali del testo, narrazione che segua le indicazioni fornite dal professore, e argomentazione di una o più tesi in contrasto fra loro).

sabatini
Francesco Sabatini, membro onorario dell’Accademia della Crusca – di cui è stato Presidente dal 2000 al 2008 – e professore emerito dell’Università degli Studi Roma Tre, si schiera con i sostenitori della lingua italiana, attribuendo grandi responsabilità al ruolo della scuola che, forse, ha smesso di insegnare l’italiano.
«Il dramma è che c’è l’obbligo dell’inglese» spiega Sabatini «e non parliamo solo di progetti inerenti alla lingua o alla letteratura italiana. Parliamo anche di questioni di diritto. Per esempio parlare obbligatoriamente in inglese di un diritto che non appartiene al mondo inglese è di per sé una contraddizione. Un ministro dovrebbe mostrare più attenzione agli aspetti generali e sostanziali della lingua. Spingere ad escludere l’italiano dal campo scientifico è un attacco gravissimo ai valori della lingua, che diventa un dialetto con cui parlare tra di noi, ma non utile a trattare temi seri e di ricerca».
Perché ci preoccupiamo di imparare così bene l’inglese a discapito dell’italiano, secondo lei?
Questa corsa a buttarci in braccio all’inglese sa un po’ di provincialismo italiano, diciamolo. Conoscere l’inglese oggi è sicuramente indispensabile da un certo livello di vita culturale e di responsabilità sociale in su, ma attenzione a escludere in partenza l’italiano dalla comunicazione scientifica. Il concetto fondamentale, su cui insisto molto, è che la Lingua Prima in Italia è l’italiano. È una facoltà del nostro cervello di cui dobbiamo servirci nella maniera più ricca e più profonda per capire il mondo dalla nascita in poi.
Non trova che ci sia un atteggiamento snobistico delle materie umanistiche?
Senza dubbio ci sono persone che, strada facendo, si sono rese conto di aver acquisito con gli studi umanistici un patrimonio di conoscenze e di strumenti comunicativi migliori. Di solito chi snobba questo genere di studi lo fa sempre pensando che le materie scientifiche, a cui guardano con maggior interesse, non abbiano le loro basi nel linguaggio umanistico. Il 90% della lingua scientifica in inglese, tedesco, italiano, spagnolo è fatta di latino e greco. Bisogna capire che lo studio delle lingue antiche non è mera esaltazione del passato ma serve a comprendere appieno la lingua moderna. Questo concetto non passa agli studenti a causa della preparazione inadeguata degli insegnanti. Lo studio delle lingue antiche va ricondotto all’approfondimento delle lingue moderne.
Trova che ci siano lacune nella formazione dei nostri futuri docenti?
Certo. L’Università e in questo caso le facoltà umanistiche non forniscono una preparazione consona. Il sistema sarebbe tutto da riesaminare: la cultura idealistica, e anti scientifica, crociana-gentiliana ci ha tagliato fuori dalle scienze. I migliori filologi di greco e di latino non sono italiani – salvo due o tre nomi – ma tedeschi, inglesi, francesi e americani. Dal punto di vista delle scienze sociali Croce ci ha molto danneggiato. L’errore, in ogni caso, è di considerare la scuola come zona di parcheggio di giovanotti o ragazzotte intrattenuti con un po’ di gioco, pseudo esperienze lavorative e riduzione dei contenuti disciplinari.
L’Italia è un Paese in cui abbondano i laureati in scienze umanistiche ma la percentuale di lettori è drasticamente bassa. A volte ce la prendiamo con i ragazzi che non si appassionano alla lettura.
Il comportamenti di tutti gli esseri umani dai 5-6 anni in avanti dipende da come li educhiamo. Il problema della lettura, e quindi della preparazione approssimativa degli insegnanti, è molto serio, e non è un fatto etico ma tecnico. Ad esempio nelle scuole primarie gli insegnanti non sanno che, a livello neurologico, è importante che i bambini si abituino a usare armonicamente e ripetutamente la mano, perché nel cervello, durante l’atto della scrittura, si imprimono le immagini dei segni delle lettere. Altrimenti sarebbe impossibile leggere. La tendenza, invece, è quella di optare per gli strumenti tecnologici, che sono sì necessari, ma non dovrebbero mai sostituire le parti del nostro corpo.
Oggi però comunichiamo quasi esclusivamente tramite app e social network.
Beh, dobbiamo fare i conti con la velocità della comunicazione, di cui oggi non possiamo fare a meno. Ma saper padroneggiare questi strumenti così rapidi richiede un rallentamento e una competenza maggiore. I cosiddetti pentiti digitali stanno proprio cercando di frenare questo processo di accelerazione: rallentiamo e soprattutto allunghiamo i tempi di istruzione anziché abbreviarli! La civiltà complessa richiede un periodo di formazione e di educazione molto più lungo e più intenso. La tecnologia non ci ha semplificato la vita, ce l’ha resa più impegnativa.
Immagino che lei, quindi, sarebbe a favore dell’iscrizione a numero chiuso anche per le facoltà umanistiche, come richiesto dalla Statale di Milano.
Assolutamente sì. La cattiva preparazione nel campo delle discipline umanistiche ha prodotto danni seri e gravi alla società italiana. Dobbiamo fare di questi studi qualcosa di più incisivo sulla personalità; la svalutazione delle materie umanistiche parte da una concezione acritica e inconsistente della cultura, percepita come qualcosa di dolciastro. Ma per affrontare una facoltà umanistica occorrono costanza, preparazione e cognizione di causa.

 

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17 Comments

  1. Condivido in parte quello che ha detto Sabatini. Il fatto di mettere il numero chiuso nelle Università, non implica alzare il livello o la qualità dei futuri laureati. In Italia, il numero chiuso, viene usato a causa di un problema strutturale delle università che, essendo che risalgono ai primi del 900, non hanno le strutture idonee ad ospitare abbastanza studenti. Molti personaggi di spicco italiani, nelle scienze umanistiche non hanno mai affrontato un test di ammissione tuttavia hanno prodotto grandi risultati, pertanto è una prova empirica della non utilità del numero chiuso. Anziché chiudere e mettere barriere all’istruzione bisogna ripensare il sistema educativo del paese dalle sue fondamenta.

    Per quanto riguarda l’inglese, anche a livello umanistico siamo abituati a consultare studi e ricerche svolte da ricercatori e studiosi che provengono sempre dall’estero come America, Inghilterra, Germania, in quanto riteniamo siano più prestigiose o corrette. Per modificare questo andamento basterebbe investire sui ricercatori italiani promuovendo (ad esempio nelle università) i loro elaborati.

    Io penso di essere un caso esemplare, mi sono laureato in relazioni internazionali ma secondo i professori della mia scuola superiore non sarei mai diventato nessuno e non mi sarei mai laureato, solo perchè sono uscito con 60 su 100. Con impegno e molti sacrifici ho passato molti esami (che sono essi stessi dei filtri per alzare il livello dei laureati) laureandomi con 100. La conoscenza va oltre un semplice numero e non bastano 180 crediti per essere dottore o “esperto” in.

    1. Viene spiegato il perché della facoltà umanistica a numero chiuso. Spesso viene vista come un parcheggio, una facoltà assolutamente di interesse minore, non formativa e non al pari di altre facoltà come Medicina ad esempio. Il numero chiuso, che prevede quindi almeno un test di ingresso, servirebbe quantomeno a darle una dignità e una forma differenti. A far capire a chi vi si iscrive che ci troviamo sempre nell’ambito delle scienze, sebbene umanistiche, e che nulla va preso sottogamba.

      1. Non è il test di ingresso che nobilita un percorso di studi. In secondo luogo trovo inutile paragonarsi a medicina architettura ingegneria o un altra scienza con applicazioni pratiche. Più che altro io metterei dei vincoli alle carriere lavorative perché purtroppo in Italia molte persone che non hanno una laurea occupano posizioni che spetterebbero ai laureati (vedi la politica)

      2. Non parliamo di “nobilitare” il percorso di studi. È un test di ingresso per cui occorrerebbe studiare, e non entrare a uffa senza neanche sapere a cosa si va incontro. Nessun test è fatto per nobilitare la facoltà.

      3. E se io studio per il test però per pochissimi posti non entro nella facoltà? Posso anche essere idoneo e non riuscire ad entrare oppure passare il test per poi scoprire che non fa per me (togliendo il posto a uno che magari ci teneva di più).

        Molte università mettono pochi posti x far vedere che è difficile entrare…come se chi passa fa parte di un elite scelta.

        Io sono per la liberalizzazione della cultura senza dogane, sono per gli investimenti nella ricerca in tutti suoi ambiti, sono per la laurea come titolo di studio minimo x accedere a concorsi pubblici e non, sono per gli investimenti nelle strutture scolastiche. Se ci fosse stato il numero chiuso forse sarei rimasto il signor nessuno che tanti miei professori dicevano. Però non tutti possono pensarla come me e sono sempre pronto al confronto costruttivo.

      4. Ma che c’entra? Se non fa per te e lo capisci dopo non è un problema della facoltà, è il tuo. E mettere il numero chiuso alla facoltà di Lettere è più che saggio, perché se hai letto attentamente l’intervista, aiuterebbe a far capire a chi si iscrive che non è – come pensano molti – un parcheggio o un luogo in cui passare cinque anni (o tre) senza far nulla o quasi. Questo era il senso. Non strumentalizziamo, per favore. L’università non è la scuola dell’obbligo, la si fa per scelta, e per questo dovrebbe essere presa seriamente, non alla leggera come fanno in molti, troppi (mi riferisco soprattutto a Lettere e Filosofia). Non è un discorso classista, si fanno delle selezioni perché è giusto che lo studente capisca a cosa va incontro e si prepari in modo adeguato. La formazione di base ce la danno già elementari, medi e superiori. Tutto il resto è un di più che deve essere seguito e portato avanti con serietà e profonda professionalità. La scuola, tutta, è una cosa seria.

  2. lo Spirito del tempo meglio favorirlo che osteggiarlo. le lingue hanno assunto varie funzioni nel corso della storia, rubandosi primati, scambiandosi la scena (penso a quando l’italiano era LA lingua della musica), evolvendosi, ibridandosi e arricchendosi, persino quando hanno rischiato di cadere in disuso.
    una cosa è lo studio della lingua, altra cosa è la pratica della lingua. personalmente sono contrario a paletti e forzature, mentre guardo con favore a chi accetta con intelligenza le trasformazioni, che sono inevitabili. ci fosse stato un Sabatini ai tempi di Dante Alighieri probabilmente avrebbe criticato Dante per la scelta di scrivere opere alte in volgare.

    1. Qui il discorso è differente. Non stiamo parlando dell’evoluzione di una lingua, stiamo parlando del fatto che in Italia ci si ostini a non parlare quasi più in italiano. I progetti di ricerca nazionali che so, in letteratura italiana ad esempio, perché dovrebbero essere presentati in lingua inglese quando chi dovrebbe valutarli è chiamato a sapere non solo la storia della letteratura italiana ma la lingua italiana stessa? Il discorso è MOLTO diverso. L’italiano esiste e va usato, non allontanato dalla ricerca scientifica. Questo NON ESCLUDE l’apprendimento e l’utilizzo di lingue diverse, anzi. Che se vogliamo dirla tutta, la maggior parte dei termini in lingua inglese e tedesca nel campo della Filologia vengono dal latino. Siamo noi che ci ostiniamo a fare gli americani quando siamo italiani. L’inglese si apprende e si usa, ma certe volte anche no.

      1. se presenti progetti di ricerca in lingua inglese (pensati in lingua in inglese, concepiti quindi per essere divulgati a un pubblico internazionale) dai loro più visibilità, più chance di essere letti e recepiti. nessuno dice che l’italiano vada allontanato. ma se riusciamo a farci capire da più persone è senz’altro meglio.
        la koine dialektos che studiamo oggi a scuola erano i greci che volevano fare gli americani?

      2. Ma perché dovrei presentare un progetto di lingua italiana in inglese se chi mi valuta deve sapere l’italiano e deve anche parlarlo? Boh, non ne trovo l’utilità, che ti devo dire. Perché qui si sta parlando di un obbligo, nel caso non fosse chiaro. Perché devo essere OBBLIGATA a presentarli in inglese e SOLO FACOLTATIVAMENTE in italiano? Per me, senza senso. Sarebbe stato opportuno il contrario.

      3. viviamo in un mondo interconnesso, specialmente per quanto riguarda la ricerca. la lingua comune al momento è l’inglese. non solo chi presenta il progetto di ricerca ma anche chi deve valutarlo dovrebbe conoscere a menadito l’inglese e possibilmente utilizzare l’inglese sempre, come succede in tutti i paesi avanzati. altrimenti noi italiani saremo condannati a rimanere nel nostro orticello. abbiamo già troppi alibi per la nostra arretratezza, non aggiungiamone un altro. parlare inglese oggi in ambito accademico, politico e sociale non è rinunciare a un’egemonia culturale o linguistica, è forse esattamente il contrario: è trasmettere le proprie idee, le proprie esperienze e i propri risultati al pubblico più vasto possibile.

      4. Continuiamo a parlare di due cose diverse, è evidente. Sabatini non dice che NON SI DEVE SAPERE E PARLARE L’INGLESE, ci mancherebbe. Stiamo parlando di progetti di ricerca NAZIONALI. Il discorso è ben diverso. E la lingua italiana, che è parte della nostra identità, va tutelata. Poi dobbiamo sapere l’inglese, l’arabo (ancora di più), il cinese (ancora di più), il tedesco, il francese, lo spagnolo e il russo.

      5. ti sto dicendo che oggi è miope (se non assurdo) considerare qualsiasi progetto di ricerca come “nazionale”.
        discorso a margine: la lingua italiana, come qualsiasi altra lingua, la “tuteli” nelle accademie Giulia. ma se va in disuso tra chi la parla, non c’è Sabatini che tenga: un tempo parlavamo latino, poi volgare, infine (qualcuno, non tutti) ci siamo dati all’italiano. e le altre lingue cadute in disuso? si studiano sui libri.

      6. Domenico, il Prin è finanziamento progetti ricerca nazionali. Ora, se vogliamo per forza di cose girarla come vogliamo, facciamo pure. Ma siccome sono nazionali e almeno in Italia mi risulta che l’italiano ancora si parli, dico e ribadisco che sarebbe stato utile fare il contrario: presentare progetti in lingua italiana e POI anche in inglese. Non il contrario. Punto primo. Punto secondo. Da italiana la lingua, lo ripeto, è l’elemento identitario numero uno. Tu confondi l’evoluzione di una lingua, I suoi STADI EVOLUTIVI (latino, volgare etc) con l’uso SOSTITUTIVO di UN’ALTRA LINGUA. Inglese e italiano non sono due fasi differenti dell’evoluzione di una singola lingue. Sono lingue diversi che si parlando in Paesi diversi. Mi sono spiegata? E lo ripeto per la decima volta. NESSUNO SOSTIENE CHE NON SI DEBBA SAPERE, PARLARE E SFRUTTARE L’INGLESE, così come le tante altre lingue che oggi come oggi ci SERVONO. Ma Dio bono, almeno l’italiano vogliamo parlarlo e scriverlo in Italia, o no? Poi ci lamentiamo che un Di Maio qualsiasi sbagli i congiuntivi? Eddai su, siamo seri una volta tanto.

      7. l’italiano, lo dicono i dizionari non io, ha già cominciato a evolvere sotto la pressione dell’inglese.
        ma tornando al discorso principe: che siano PRIN, FLUN E FLAN, che siano pure infimi progetti locali, comunali, rionali, ribadisco che è meglio usare l’inglese per dare loro la visibilità e la comprensibilità che servono in un mondo globale. altrimenti rimangono confinati a Inveruno e Canicattì

  3. Sono assolutamente in disaccordo con il Professor Sabatini sulla questione inerente la limitazione dell’accesso alle facoltà universitarie umanistiche. La considero una scelta non corrispondente ai principi di democraticità, libertà e uguaglianza, fondamentali nel nostro ordinamento. Questo vale anche per le facoltà che, ancora oggi, sono ad accesso limitato.

    Così pensando, infatti, si scaricherebbe a valle un problema che invece è a monte, ossia l’inadeguatezza dell’attuale sistema scolastico. Detto sistema, per l’appunto, non fornisce ai giovani d’oggi quegli strumenti necessari e utili per orientare in modo consapevole la scelta sulla futura formazione universitaria ed avere quindi quella “cognizione di causa” cui il Professore fa riferimento.
    Non è colpa degli studenti se l’istruzione che ricevono è scarsa e incompleta. Non sono loro a considerare la facoltà di Lettere un “parcheggio”, è la Scuola che glielo insegna. Non devono essere condannati loro per un problema di inefficienza amministrativa e, aggiungo, anche legislativa.

    Invece di limitare e bloccare, bisognerebbe aprire e dare a chiunque lo desideri e ne scopra, anche tardi, l’inclinazione, la possibilità di conoscere qualsiasi materia, anche ad alti livelli.

    Sta lentamente formandosi l’idea che per accedere allo studio universitario sia necessario essere già in possesso di conoscenze di tipo universitario, utili per superare il fantomatico test. Ma l’esperimento è già fallito sulla pelle della nostra generazione che per superare il test per l’accesso alla facoltà di Medicina ha studiato in scuole private, a pagamento, da libri diversi da quelli scolastici, per sopperire alle lacune lasciate dalla Scuola pubblica.

    La proposta è e deve essere, invece, quella di migliorare la formazione scolastica ai livelli inferiori, che allo stato è lacunosa e insufficiente, di sostituire la vecchia generazione di insegnanti, con una nuova e ben più evoluta sul piano della conoscenza e della metodologia.

    Si trova lì il nodo da sciogliere.

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