Questa non è una recensione, o almeno non del tutto, lo è anzi nella misura in cui voi saprete di quale libro vi parlerò e di che cosa tratti. Infatti questa è più che altro una confessione, una spiegazione (senza pretesa pseudo accademica, sia chiaro), perfino una testimonianza: può un libro trasformarsi nel suo stesso personaggio, inglobare una vita al punto tale da rendere il romanzo stesso non più una storia da raccontare ma una persona, appunto, da ascoltare?
E può un lettore – in questo caso la sottoscritta – empatizzare con il suddetto libro al punto da confondere cosa sta provando il protagonista e cosa sta provando lei (ma non nel senso banale dell’espressione, non mi riferisco a quell’empatia che ti trascina fino alla fine del libro, al termine del quale sospiri e dici “Come vorrei non fosse finito qui, come mi dispiace per Tizio, come sono felice per Caio, quanto mi ha commosso”. No, no. È un’affezione diversa, di cui ti rendi conto subito, prima di arrivare alla metà, perché senti che quella persona ha bisogno di te – e tu non puoi fare niente)?
Ebbene, sto parlando di quel glorioso capolavoro che è Stoner di John Williams (uscito in Italia per Fazi nel 2012). L’ho scoperto tardi, ma l’ho scoperto nel momento giusto: quando vi dicono che è un libro a chiamarvi e che non siete voi a sceglierlo, è vero. Difatti, la controprova è che, quando scegliete di leggere qualcosa “per forza” quel qualcosa potrebbe non piacervi. Dicevo, l’ho letto un paio di mesi fa e ve ne parlo solo ora perché mi sono presa del tempo per capire (leggi: cercare di) e metabolizzare. Ma posso assicurarvi che la puntualità di certe storie a volte ha qualcosa di magico.
Ci troviamo a Booneville, nel Missouri, in quel fazzoletto di terra che sarà lo scenario di tutta l’azione, perché si dà il caso che il nostro protagonista, William Stoner, non si muoverà quasi mai da lì. La staticità delle sue azioni corrisponde perfettamente alla staticità della sua vita, affetta da quel morbo di accettazione passiva dell’esistenza – propria e altrui – che colpisce i puri d’animo.
Ecco, Stoner – lo chiameremo sempre così, per cognome, che come scrive Peter Cameron nella postfazione ricorda il termine “stone”, pietra, simbolo per eccellenza dell’immobilità – non è che un misero, miserabile, indolente, noioso professore universitario. E sì, a molti capita di definirlo così, “noioso”. Sapete perché? Perché semplicemente lui non fa nulla, si lascia scorrere addosso il tempo della Storia e delle storie che qualcuno gli impone: si innamora di Edith, la sposa e vivrà fino alla fine dei suoi giorni un matrimonio non solo insoddisfacente, ma finanche dannoso, tanto per sé quanto per la moglie insofferente e molesta. La ferocia di Edith sembra non riguardalo, le sue continue febbri da nervosismo non lo toccano più di tanto, sebbene gli si legga una sincera preoccupazione negli occhi.
Ha due soli amici – uno dei quali muore in guerra – i rapporti con i suoceri sono prima ostili poi indifferenti; le cose accadono intorno a Stoner, semplicemente “la vita succede”, tuttavia il suo inflessibile equilibrio non viene scalfito da nulla, tranne che da un unico elemento: la Letteratura.
Ed eccoci qui, arriviamo al cuore del problema. La Letteratura.
Abbiamo capito che si tratta del classico romanzo di cui, banalmente, diremmo “è lento, non accade nulla”; è vero, l’azione è ridotta a zero perché si tratta di seguire le orme di un uomo che osserva ma non agisce, che prova emozioni che non esterna, che resta, potremmo quasi dire, dietro le quinte, sebbene sia il protagonista della storia. E qual è, allora, la cifra di un romanzo come questo? Risiede proprio nella forza della semplicità e nel potere delle parole.
Stoner si scuote dal suo torpore solo quando ha a che fare con l’università e con tutto ciò che gravita attorno allo studio; per lui la Letteratura è l’unica, sola, autentica ragione di vita, quella per cui è giusto immolarsi e sacrificare il Tempo completo dell’esistenza umana.
«L’amore per la letteratura, per il linguaggio, per il mistero della mente e del cuore che si rivelano in quella minuta, strana e imprevedibile combinazione di lettere e parole, di neri e gelidi caratteri stampati sulla carta, l’amore che aveva sempre nascosto come se fosse illecito e pericoloso, cominciò a esprimersi dapprima in modo incerto, poi con coraggio sempre maggiore. Infine con orgoglio».
Siamo di fronte a quello che, secondo me, è uno dei passi centrali del libro, in cui John Williams – con una prosa che ipnotizza, che pulsa sotto lo strato sottile della pacatezza – libera la sua vera identità “stoneriana”: difficilmente dopo che avrete letto “Stoner” continuerete a vedere l’autore dissociato dal personaggio. Williams è, in parte, Stoner, perché l’urgenza di vivere la Letteratura, e non semplicemente di raccontarla come docente ad una platea di studenti, è tanto il fulcro del pensiero dell’uno quanto dell’altro. Sono due persone distinte, si badi bene, ma che, alla fine gioco forza, si fondono.
Stoner si accende solamente quando è mosso dalla passione per lo studio, che non è mai, MAI, insulso piacere accademico: l’ambiente universitario in cui si muove per gran parte della vicenda è il suo rifugio, è l’asilo, il punto di arrivo e di partenza; è il suo mondo. Lo Stoner studente prende la decisione di restare a Booneville e di non tornare a vivere con i suoi genitori al termine dell’università perché il suo posto è lì; lo Stoner docente decide di schierarsi dalla parte del merito e non accetta di dover promuovere un giovane studente solo perché raccomandato dal professor Lomax; lo Stoner uomo riscopre l’amore e anche la passione con la studentessa Katherine Driscoll, a cui si affeziona per audacia di sentimenti e interessi comuni.
I momenti salienti della sua vita sono legati da un fil rouge: Stoner non ha nulla dell’uomo indolente, la sua passività non è disinteresse, non è mai svogliatezza, né tantomeno noia, la sua, piuttosto, è dolorosa incapacità di vivere, è disagio profondo, sofferenza che si muove sul filo dell’incertezza e dell’indugio. Eppure riesce a tirar fuori la sua tenacia quand’è sopraffatto da quel senso di ingiustizia che lo investe a più riprese all’interno dell’università: non è giusto che lo studente Charles Walker, impreparato e incompetente (e storpio esattamente come il suo protettore, di certo non è un caso), superi gli esami che lo porteranno a diventare insegnante solo perché è un protetto di Lomax.
«Sarebbe un disastro lasciarlo libero in una classe», dice Stoner all’amico Gordon Finch parlando di Walker, «Non possiamo lasciarlo entrare. Perché se lo facciamo, diventeremo come il mondo, altrettanto irreali, altrettanto … L’unica speranza che abbiamo è tenerlo fuori». La Letteratura, la comprensione dell’universo attraverso le parole, lo studio che è rifugio dal mondo, perfino “ricovero per gli storpi”, non è di dominio pubblico: è aperto a chiunque, ma non è maneggiabile da tutti. Stoner capisce, SA quanto è grande il potere della Letteratura, sa quanto è pericolosa, magica, salvifica. E sa anche che non è concesso a chiunque di addomesticarla.
Stoner è un puro, un’anima paziente e “indefessa” (aggettivo utilizzato dai suoi colleghi), è la personificazione dell’ ”ingenua” intelligenza di chi persegue ciò in cui crede: la sua natura, in verità, è solida, robusta, ben allineata, sa in quale direzione muoversi e lo fa a costo di tutto, perfino del posto di lavoro che Lomax potrebbe sottrargli. La sua purezza è sinonimo di interezza, è un uomo completo e integerrimo, che mantiene la giusta lucidità ove necessario, riuscendo perfino a schivare le numerose lacune della sua vita.
Nella scrittura e nella poetica di Williams assistiamo ad una vera “stonerizzazione” a più livelli dei suoi personaggi: perfino il primo imperatore di Roma Ottaviano Augusto del suo Augustus (pubblicato in America nel 1972 e ripubblicato in Italia da Fazi nel 2017) subisce questo processo e si trasforma, agli occhi del pubblico, semplicemente in un Uomo, con le sue debolezze, le incertezze, la fiducia mal riposta.

La vita di Stoner è fatta di significati e di interpretazioni, di silenzi e di sguardi, per questo, probabilmente, il pubblico americano non apprezzò – e i numeri, fino ad oggi, lo confermano – il lavoro di John Williams. Lo scrittore americano ha portato alla ribalta la normalità di una vita “piatta”, insulsa agli occhi dei più, ed è proprio per questo che la critica americana non si capacita di tanto successo.
Quando il romanzo uscì per la prima volta in America nel 1963 vendette a stento duemila copie, praticamente nulla; nel 2006 il New York Review Books Classics l’ha in qualche modo riabilitato, ma il successo è arrivato all’estero soltanto tra il 2012 e il 2013: solo in Italia a partire dal 2012, anno di pubblicazione grazie a Fazi Editore, si sono vendute oltre 200 mila copie.
Eppure all’intellighenzia d’oltre oceano qualche cosa non torna: perché tanto successo? In fondo è un libro che non racconta niente di rilevante. Questione di sensibilità? Questione di interesse letterario? Di certo la cultura europea accoglie di buon grado la narrativa intimista, che scandaglia i rivoli emotivi dell’essere umano soffermandosi sui dettagli.
Chissà, fatto sta che, per fortuna, ora Stoner ce l’abbiamo e continuiamo a coccolarcelo ancora per un po’.
«A volte gli sembrava di essere una specie vegetale e sperava che qualcosa – anche il dolore – lo trafiggesse, per riportarlo in vita.
Era arrivato a un’età in cui, con intensità crescente, gli si presentava sempre la stessa domanda, di una semplicità così disarmante che non aveva gli strumenti per affrontarla. Si ritrovava a chiedersi se la sua vita fosse degna di essere vissuta. Se mai lo fosse stata».
Romanzo meraviglioso, recensione perfetta.