Quante volte ci siamo chiesti che fine fanno i personaggi secondari di un romanzo, chi sono realmente, cosa provano, cosa sentono? Quante volte abbiamo provato ad immaginare le vite dei derelitti, di quei “cattivi” che lo scrittore ci propone ma di cui, in fondo, non sappiamo nulla – quale trascorso hanno avuto, perché sono così inquieti e disturbanti? Insomma, tutto il mondo sommerso dei personaggi “in forse”, che fanno da sfondo, che talvolta costituiscono persino il motivo scatenante, la scintilla dell’intera storia – pur rimanendo nell’ombra, ché di loro si sa poco o niente – ora viene a galla: è bastato giocare un po’ con la fantasia, mescolandola alla realtà storica.
Jean Rhys ha coltivato questo interesse per gli emarginati e ce lo ha trasmesso attraverso quello che è considerato il suo capolavoro, Il grande mare dei sargassi.
Anche lei, come la protagonista del romanzo – che altri non è che la moglie impazzita del Mr Rochester di Jane Eyre – ha origini creole, per la precisione è figlia di padre gallese e di madre creola di origine scozzese; ma c’è di più: anche Jean Rhys – pseudonimo di Ella Gwendolen Rees Williams – come la nostra antieroina Antoinette/Bertha, viene in qualche modo “dimenticata”.

Soltanto oggi, nel 2017, a trentotto anni dalla morte e a cinquantuno dall’uscita de “Il grande mare dei sargassi” – romanzo con cui balza all’attenzione di pubblico e critica, sebbene negli anni Venti e Trenta abbia pubblicato altri quattro romanzi, passati più o meno in sordina – la casa editrice Adelphi riscopre l’autrice pubblicando Io una volta abitavo qui (pubblicati nel 2001 Addio, Mr Mackenzie e nel 2013 Quartetto, sempre per Adelphi).
Ma veniamo al suo romanzo più celebre, Il grande mare dei sargassi, prequel del romanzo di Charlotte Brontë Jane Eyre, con cui la Rhys vinse il WH Smith Literary Award nel 1967.
Dall’amata Giamaica alla fredda e inospitale Inghilterra, la vicenda si svolge nel periodo immediatamente successivo alla promulgazione dell’atto sull’abolizione della schiavitù da parte del Regno Unito (la legge è del 1833 ma è stata applicata a partire dal 1838), sebbene l’atmosfera e le dinamiche della storia mettano in luce aspetti ben peggiori della più nota forma di schiavitù.
Antoinette (che ha un nome doppio, Bertha, poi capiremo il perché) in quanto creola giamaicana bianca risulta essere un’estranea per chiunque: per i neri perché è di fatto bianca, pur essendo nativa delle isole caraibiche – e oltretutto non appartiene a quella classe di schiavizzati di cui invece fanno parte i neri; e per i bianchi perché lei è una “nera bianca”, non è parte integrante della civilizzata e purissima società inglese. Non solo. Antoinette è anche figlia di una donna considerata mentalmente pazza – follia che, dobbiamo precisarlo, nasce in seguito ad un evento catastrofico in cui la donna perde il figlio più piccolo, fratello della protagonista.

La ragazza, dopo la morte della madre e dopo un lungo periodo passato in convento, viene data in sposa a tale Rochester, giunto sull’isola per volere del padre. I due si sposano ma non c’è amore, almeno non da parte di Mr Rochester che, piuttosto, sembra affascinato dal mondo esotico in cui è immersa, e di cui è intrisa, la sua giovane sposa: l’universo caraibico diventa per i due sposi la bolla magica entro cui muoversi, trascinati come sono da una reciproca passione fisica; Rochester si trova di fronte ad un mondo nuovo, in cui la flora si confonde con la fauna, in cui non c’è divisione fra la favola e la realtà – sebbene si tratti di una favola dai toni cupi, molto più simili all’incubo che al sogno, come avrà modo di constatare in seguito.
Ad intaccare il precario ménage familiare arriva la gelosia, che come un morbo invadente colpisce Antoinette e che, agli occhi di Rochester e di tutta la servitù, si trasforma in pura follia, tanto viene portata all’esasperazione dalla ragazza. Eccola, quindi, la vera storia della grande assente di Jane Eyre, dell’ombra nervosa che si aggirava nella soffitta di casa Rochester.
Di questo romanzo postcoloniale balzano all’occhio due elementi: la trattazione dei personaggi e lo stile narrativo.
Partiamo dalla protagonista: Antoinette, come abbiamo già evidenziato in precedenza, ha anche un altro nome, Bertha, che in realtà è il nome di sua madre, la pazza. L’identità di Antoinette, a mano a mano che si procede con la lettura, va perdendo di forza, o meglio, i contorni si fanno sempre più blandi, quasi indefinibili, perché si confondono le due anime complementari (e familiari) della pazzia: quella di Bertha e quella di Antoinette. Ciò che appare come tara familiare diventa il fulcro della crisi identitaria della protagonista, che non solo viene ostacolata dalla servitù, ma anche dal marito:
« – Non ridere in quel modo, Bertha
– Non mi chiamo Bertha, perché mi chiami Bertha?
– Perché è un nome che mi piace in modo particolare. Tu per me sei Bertha.
– Non ha importanza – disse lei».
Rochester, in modo brutale, allontana Antoinette: non appena si sveglia dal torpore ammaliante causato dalla fascinazione stessa della donna, la scansa con violenza e si prende gioco di lei – in modo sottile, come nel passo sopra citato, facendole intuire che lui era a conoscenza del suo dramma familiare. Quest’atteggiamento oltremodo respingente sovrasta la sensibilità di una donna fragile, il cui equilibrio psicologico è già fortemente compromesso, e che in sostanza viene data per pazza. Non vengono ascoltate le sue ragioni, viene derubata di ogni cosa, persino del ricordo del luogo amato, Coulibri, in cui aveva trascorso l’infanzia.

Ad una crudele espropriazione di personalità si affianca la caratterizzazione degli altri personaggi, dei cosiddetti “neri neri”:
«Non guardavo mai nessun negro estraneo [dice Antoinette, a cui è affidato il racconto in prima persona della parte iniziale del romanzo, mentre nella seconda parte la parola passa a Rochester, ndr]. Ci odiavano. Ci chiamavano blatte bianche. (…) Un giorno una ragazzetta mi seguì cantando: “Tu va via blatta bianca, tu va via, tu va via”. Affrettai il passo, ma lei accelerò più di me. “Blatta bianca tu va via, tu va via. Nessuno ti vuole. Tu va via”».
La visione che offre Jean Rhys è piuttosto interessante, perché in questo caso, nella prospettiva della proclamazione del novello Slavery Abolition Act, ad essere “schiavizzati”, umanamente e psicologicamente, sono i bianchi, non i neri. Antoinette viene costantemente ridicolizzata e maltrattata tanto da loro quanto dal bianco Rochester, che pure non riconosce in lei altro che l’indole selvaggia di una povera folle.
La violenza, nel romanzo della Rhys, viene analizzata sotto due differenti punti di vista, quello dei neri e quello dei bianchi, due forme differenti della stessa crudeltà espresse perfettamente – da un’angolazione stilistica e narrativa – attraverso i dialoghi: pungenti, diretti, urticanti. Della scrittura di Jean Rhys non si può dire nulla di diverso se non che sia tanto sincera da ferire chi vi si imbatte. Ed è questa, forse, una delle più alte espressioni del suo talento letterario.
Grazie!!! >