Il contatto umano ridotto a carezza digitale

«È un libro che consiglierei a chi ha voglia di svagarsi un po’, di intrattenersi con una storia di avventura, ma anche a chi ha voglia di trovare, nella finzione, uno spunto di riflessione: ho lavorato soprattutto sull’introspezione, che è forse la cosa che, da lettrice, mi manca di più, specie nella letteratura per ragazzi».

Risponde così Chiara Panzuti quando le chiedo un paio di buoni motivi per cui un adolescente debba leggere il suo romanzo, Absence, primo volume di una trilogia young adult sul tema dell’invisibilità pubblicata da Fazi Editore nella collana Lainya. Chiara nasce a Milano nel 1988, è appassionata di scrittura fin da piccola ed è stata anche lei una invisibile, esattamente come i quattro protagonisti del suo romanzo, Faith, Jared, Scott e Christabel.

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Quattro adolescenti residenti nella Londra contemporanea, caratteri e storie diverse alle spalle, ma un unico, impietoso destino: di punto in bianco diventano invisibili, il corpo scompare, la voce non si sente, nessuno li nota, ma soprattutto nessuno ha memoria di loro. Prende avvio da un’assenza la storia di questo gioco incomprensibile a cui i ragazzi devono partecipare per capire cosa sia successo, perché la verità è in mano ad un Illusionista – un’entità maggiore, irraggiungibile, che manovra i fili del gioco e delle vite dei giocatori, una sorta di divinità pagana, un dio della malvagità. Su indicazione dell’Illusionista (e dell’uomo in nero che li guiderà con indizi apparentemente indecifrabili) Faith, Jared, Scott e Christabel arriveranno fino in Ecaudor per riappropriarsi della loro identità. Ci riusciranno?

In attesa di sapere cosa ci aspetta nei prossimi volumi – L’altro volto del cielo e La memoria che resta – ho chiesto a Chiara Panzuti di parlarci di questo tema così attuale, della possibilità di diventare invisibili anche se fisicamente presenti nel mondo reale.

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Qual è l’idea alla base di questa trilogia? Cosa ti ha spinto a scrivere Absence?

La tematica dell’invisibilità mi è molto cara, perché anch’io sono stata un’invisibile ai tempi del liceo, non ero né carne né pesce, non eccellevo in nulla e non ero neanche tra i pessimi. Non ero, insomma. Avevo la netta sensazione di non poter realizzarmi, non riuscivo a condividere le mie passioni, a esternare. Superata la fase di transizione, ossia l’adolescenza, ho ripreso in mano il problema ed ho accostato questa incapacità di emergere ad una questione di identità: anche dopo che avevo capito chi volevo essere, non ero in grado di esprimerlo agli altri. Ero metaforicamente invisibile.

Poi però sono arrivati i social, che ci hanno permesso un contatto più disinvolto con il mondo esterno.

È arrivato Facebook, per me. Mi sono iscritta non tantissimo tempo fa, all’inizio lo usavo poco, ora di più. Questi supporti digitali hanno sicuramente degli aspetti positivi perché riescono a metterti in contatto con persone che non puoi vedere quotidianamente, ma hanno anche dei lati negativi: pongono l’identità del singolo su un piano virtuale, si creano degli avatar che non ci rispecchiano mai del tutto, non siamo noi. Approdiamo ad un grande senso di solitudine, che associo principalmente al tema dell’invisibilità e dell’identità. Se non riusciamo a venire fuori da soli, è l’altro che tenta di definirci: ma senza questo riscontro da parte di terzi, sentiamo ancora di esistere, di appartenerci?

Nello specifico, che tipo di invisibilità è quella dei quattro ragazzi di Absence?

È un’invisibilità concreta sì, ma è soprattutto fatta di solitudine e di mancanza di identità. Sono invisibile, non ho feedback esterno, nessuno mi può dire come sono fatto, nessuno si ricorda che esisto, nessuno può dirmi “Avevamo questo tipo di rapporto” (perché noi siamo anche i rapporti che instauriamo). Se nessuno è lì per vederti e giudicarti, per riconoscerti, tu esisti oppure no? Puoi esistere ugualmente con un’identità che vedi solo tu, che mantiene saldo un punto cardine anche nel momento in cui gli altri non hanno più consapevolezza di te?

Siamo sempre connessi, eppure spesso non ci accorgiamo di cosa accade a chi ci è vicino, non sappiamo davvero cosa ci sta succedendo; quanto è alto il rischio di perdere le proprie tracce e il contatto con la realtà?

È un pericolo abbastanza alto. Non demonizzo assolutamente i social, io stessa uso Facebook, ma ho capito, andando avanti negli anni, quanto uno strumento simile possa trasformarsi in un elemento di distrazione: se usato troppo e/o senza criterio rischia di farci perdere il contatto con la realtà.

Si è affievolito quel classico modo di socializzare “a pelle”, il faccia a faccia, si sta perdendo la conoscenza delle persone a tutto tondo, sostituita dalle amicizie virtuali. Il rovescio della medaglia dei social è che, in particolar modo per le persone timide o insicure, offre la possibilità di non esporsi in prima persona e di sfogare la frustrazione repressa attraverso uno schermo che le protegge. Ci basiamo su quello che leggiamo, sui commenti, su notizie che spesso sono addirittura false. Abbiamo perso il senso del contatto umano, dell’amicizia, degli incontri.

Scrivi: “È una questione di dipendenze”. Dipendenze che generano distrazione. Abbiamo bisogno di distrarci perché abbiamo paura di confrontarci e di guardare in faccia la realtà, oppure non ne abbiamo più voglia perché siamo stanchi di riflettere? Di sicuro abbiamo perso il senso critico.

Credo più che si tratti di paura, perché la voglia di confrontarsi la sento ancora. Il contatto diretto con l’altro è qualcosa che ci appartiene nel profondo, non può scomparire del tutto. Questa stanchezza, questa sorta di menefreghismo è frutto del timore, della paura di provare cose forti ma allo stesso tempo vere. Purtroppo il mondo di oggi ha creato delle belle sostituzioni.

Leggendo il tuo libro, mi è tornato in mente un pensiero di Galimberti tratto dal saggio L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani: «Nell’assuefazione con cui utilizziamo strumenti e servizi che riducono lo spazio, velocizzano il tempo, leniscono il dolore, vanificano le norme su cui sono state scalpellate tutte le morali, rischiamo di non chiederci se il nostro modo di essere uomini non sia troppo antico per abitare l’età della tecnica che non noi, ma l’astrazione della nostra mente ha creato, obbligandoci (…), a entrarvi e a prendervi parte».

Condivido il pensiero. I massimi livelli delle nostri capacità mentali, di riflessione e introspezione, sono stati raggiunti in momenti in cui c’erano persone che hanno avuto il tempo, la tranquillità e la possibilità di farsi tante domande ed elaborare pensieri come questo.

Sono un’amante degli scrittori russi proprio perché creano storie che ruotano attorno a tematiche fondamentali sull’essere umano, sul suo modo di agire e pensare. C’è indagine interiore, introspezione, e al contempo c’è la storia dell’uomo, quella di tutti i giorni. Non ci si distacca dal reale, dalla verità.

Noi abbiamo bisogno di ricevere degli input continui per evitare di fermarci a riflettere. Andiamo di corsa e non ci fermiamo a pensare. Guardarsi dentro fa paura, ma è necessario, forse oggi più di ieri.

Credi che i giovani di oggi stiano andando incontro ad un analfabetismo emotivo?

Purtroppo sì. Crescono ignorando le basi del dialogo, non giocano quasi più tra di loro o con i genitori, non hanno più bisogno di sviluppare la fantasia, di inventare giochi nuovi; hanno l’iPad, l’iPhone. L’umanità ha fatto dei grandi passi avanti nel corso del tempo, ma oggi sembra che la tecnologia ce li stia facendo dimenticare. Certo, non possiamo dare la colpa agli adolescenti se arriveranno a vent’anni e avranno dei problemi di interrelazione, perché sono cresciuti con questi strumenti.

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Pensi quindi che ci sia bisogno di una guida, di un punto di riferimento forte, come può esserlo l’insegnante?

Ovviamente. Temo però che l’insegnante si trovi spesso di fronte a situazioni difficili da recuperare: ci sono casi in cui i genitori non dialogano per niente con i propri figli, non li preparano al percorso scolastico, al fatto che potrebbero prendere dei brutti voti, delle critiche – e non sempre sono giuste, ma bisogna imparare ad incassare e poi anche a difendersi. Tornando al discorso social, posso dirti che a volte credo che i genitori non siano più genitori e i figli non siano più figli, c’è una crisi del ruolo: spesso si trovano reportage fotografici della crescita di un bambino su Facebook, dalla nascita fin quasi all’adolescenza, e questo in qualche modo va a ledere la privacy di un minore, e può essere anche molto rischioso. Sono gesti di cui non ci si rende conto, ma la questione, probabilmente, ci sta sfuggendo di mano.

«La gente ha paura ed ignora quello che non capisce», dice Jared a Faith. Il diverso fa paura, perché non lo capiamo. Rispetto a quanto assistiamo quotidianamente in tutto il mondo, credi che questa frase possa fotografare la situazione attuale?

In fondo sì. Manca un reale approfondimento delle questioni su cui si discute. Conoscere il diverso non significa semplicemente parlarne o averne il sentore, significa farne esperienza, documentarsi, approfondire, e non parlare per luoghi comuni in qualche gruppo Facebook.

Crediamo, anche un po’ a causa di questi nuovi media, di sapere tutto, ma non è così: le notizie sono alla portata di chiunque, tutti possono commentare, e va benissimo, ma questo non significa essere competenti.

Più che globalizzazione reale assistiamo ad un reale passo indietro rispetto all’accettazione dell’altro: c’è gente irrispettosa, irosa, pronta a giudicare senza sapere.

Un consiglio di lettura estivo per gli adolescenti?

La trilogia di fantascienza apocalittica La quinta onda di Rick Yancey, perché anche qui c’è azione e introspezione. E poi consiglierei, soprattutto alle ragazze, Banana Yoshimoto, in particolare il mio preferito, Kitchen: credo che la Yoshimoto riesca a trattare il tema della morte con grande dolcezza, ed il concetto di “fine” viene fuori proprio nel periodo dell’adolescenza.

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1 Comment

  1. Molto interessante l’ intervista. Fanno riflettere molto le perplessità dell’ autrice( che è anche molto giovane) ma porta consapevolezza di tutti i disagi e le solitudini create( forse ad hoc) da tutti i mondi social. Lancia segnali importanti che educatori, genitori e fruitori dei social dovrebbero cogliere per sviluppare una nuova identità che vada oltre questi ” paradisi virtuali”.

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