Gabriel Garcia Marquez scriveva che tutti gli esseri umani hanno tre vite, di cui una pubblica, una privata e una segreta, e Dio solo sa quanto aveva ragione. Ma è anche vero che Marquez non è vissuto nel 2017 e soprattutto – soprattutto! – non aveva WhatsApp (meno spunte blu, meno problemi, ma chi ce lo fa fare?!).
L’applicazione che ingloba gioie e dolori, delusioni e frustrazioni: ebbene sì, è proprio lei, WhatsApp, al centro dell’ultimo originale romanzo di Federico Baccomo, Anna sta mentendo (Giunti). Protagonista Riccardo Merisio, giovane e creativo impiegato della Dedala – società di ricerche umane applicate a numerosi campi, i più vari – e fidanzato di Anna (la suddetta presunta bugiarda del titolo, insomma), sua collega di lavoro.
L’inghippo tra Riccardo e Anna, che hanno una relazione neonata ma più che serena, sorge durante una chat su WhatsApp: mentre risponde ad Anna, Riccardo vede modificarsi sotto i propri occhi la famosa applicazione, che si “aggiorna” automaticamente, divenendo di fatto WhatsTrue. E WhatsTrue dice che Anna sta mentendo a Riccardo. Proprio così. Cambia la grafica – ben più minacciosa e di color rosso fuoco – ma soprattutto sembrerebbe che questa nuova app riveli all’interlocutore se il contatto “sta scrivendo…(la verità)” o “sta mentendo…”.
Insomma, uno strumento diabolico con cui Riccardo può spiare le sue vittime virtuali, perché l’applicazione è a suo speciale e unico uso e consumo. In questo giallo psicologico dal ritmo vibrante e suadente, in cui si tenterà di capire chi sia l’inventore di WhatsTrue e perché Anna sta mentendo – se effettivamente lo sta facendo – Federico Baccomo dipinge alla perfezione il panorama della nostra epoca, quella del tutto e subito, dell’informazione ad ogni costo, perfino della verità ad ogni costo.
Nuove tecnologie, app, social e tanta (troppa?) voglia di essere protagonisti. Ecco cosa pensa l’autore di Anna sta mentendo.
WhatsApp che diventa WhatsTrue, da “Tizio sta scrivendo…” a “Tizio sta mentendo…”, curiosa – leggi pericolosa – evoluzione di un’app che “governa” ormai la nostra quotidianità. Da dove nasce questa diabolica idea?
“Nasce quasi come una battuta. In uno di quei momenti in cui, aspettando una risposta, stavo lì a fissare la parte alta dello schermo, dove scorreva quella logorante scritta “sta scrivendo…”, mi è sembrato quasi di visualizzare lo sforzo dell’interlocutore di inventarsi qualcosa. Così, tra me e me, mi son detto: immagina se questo affare cominciasse a segnalare quando davvero una persona sta mentendo. Mi son fermato e ho avuto la sensazione di avere incrociato una bella storia”.
Con WhatsTrue è possibile sbugiardare i nostri interlocutori, esattamente come fa Riccardo nel romanzo. Dunque, è lui che diventa ingannatore, ma è, al contempo, anche ingannato. Vittime e carnefici sembrano confondersi, una su tutti però continua a dominare la scena: la tecnologia. Quanto ne siamo schiavi? E quanto vogliamo continuare ad esserlo?
Credo che la tecnologia agisca come una lente: ingigantisce aspetti già presenti in noi. I bugiardi moltiplicano le menzogne, i violenti si fanno più violenti, i timidi irrigidiscono il proprio guscio. Il rischio è quello di diventare caricature, cliché a due zampe, in cui ogni aspetto – positivo o negativo che sia – venga esasperato e finisca per mangiarsi le sfumature di cui ci nutriamo.
Se è vero che apps e social ci allontanano dalla realtà relegandoci in un mondo virtuale da cui non siamo in grado di uscire, è anche vero che, attraverso geolocalizzazioni, foto istantanee e video in diretta, sono gli strumenti che più ci riportano dati veri, reali, quasi tangibili. Questo è ciò che fa anche WhatsTrue, in definitiva, ma Riccardo ne ha quasi paura. Quanto, dunque, siamo noi ad essere legati alla sicurezza delle illusioni e dunque schiavi di noi stessi e delle nostre stesse paure, anziché della virtualità?
A volte l’illusione è un conforto di cui non si può fare a meno. Vogliamo, con forza, credere che riusciremo a trovare un nuovo amore, che ci sia un aldilà in cui riabbracceremo chi abbiamo perduto, o anche solo che la nostra nuova camicia ci faccia più magri. In questo senso, una realtà che si imponga sulle nostre illusioni a volte riesce ad essere distruttiva. Anche perché è difficile capire cosa sia davvero la realtà. In un vecchio racconto di Stephen King si parla di una foto che ritrae un ragazzo nero, in tenuta sportiva, con le braccia al cielo come in segno di vittoria. Si gira la pagina, la foto si allarga, e quello che sembrava un momento di gloria, diventa un tragico fallimento: il ragazzo, scappando da un poliziotto sullo sfondo con la pistola spianata, è stato colpito alla schiena e sta per cadere al suolo. La realtà di cui facciamo esperienza oggi appare spesso così: mediata. Ci sono cornici e punti di vista che la distorcono, restituendola traviata, corrotta.
Come ti sei avvicinato al mondo delle neuroscienze?
Con curiosità e un po’ di soggezione. Mi appassiona il tentativo di rispondere alla domanda che più di tutte ci rende uomini: “Chi sono io?”
Tutto è menzogna e anche la letteratura non è che un «inganno ben strutturato». Da demiurgo della parola quale sei, è dunque vero che il racconto è solo la «forma più nobile e meditata» della bugia?
Parafrasando un paradosso un po’ abusato, verrebbe da dire: è nato prima il racconto o la bugia? Apro il vocabolario e leggo: “Bugia: cosa non vera, che viene detta ben sapendo di non dire la verità”. E mi pare che ogni romanzo caschi bene sotto questo cappello. Con un aspetto paradossale in più: i romanzi migliori son quelli che sembrano offrirci piccoli o grandi stralci di verità. Una verità che si pone oltre i fatti, che ha a che fare con il nostro intimo.
Come scrivi nel romanzo, siamo quelli dell’età dell’informazione e dunque «nel sistema ipercomunicativo la protezione di sé evolve in esposizione di sé, l’uomo privato cede il passo all’uomo pubblico». Quanto bisogno abbiamo di sentirci protagonisti, di alimentare la nostra solitudine mettendoci in mostra e raccogliendo consensi? Non siamo anche quelli dell’epoca della grande solitudine e dell’incertezza?
È buffo osservare come le nuove abitudini stiano stravolgendo la percezione che abbiamo di noi. Quando ero piccolo, a vedere qualcuno farsi una foto da solo, nel migliore dei casi si sarebbe corsi a offrirgli aiuto, nel peggiore lo si sarebbe guardato con una certa compassione. Oggi è invece un’urgenza che comprendiamo e che in qualche modo incoraggiamo. Ecco, questa sensazione di essere al centro di qualcosa credo sia sempre esistita, la differenza è che oggi abbiamo la possibilità di seguire questa strana pulsione che ci vuole come pezzi da museo, in perenne mostra. Siamo soli, siamo incerti, siamo smarriti, siamo protagonisti.
Hai già immaginato la trasposizione cinematografica del tuo romanzo? Lo immagineresti sulla falsa riga di Perfetti sconosciuti?
Il romanzo ha un andamento un po’ da thriller, il mio piccolo tentativo era di giocare sulla tensione che lega un capitolo all’altro, con l’obiettivo di spingere il lettore a non lasciare andare le pagine, a perdersi nel labirinto assieme al protagonista. In questo senso sembrerebbe un libro con qualche possibilità cinematografica. C’è però qualcosa che mi sembra remi contro: è un romanzo sulle parole scritte, su questi bizzarri epistolari che (chi l’avrebbe detto) sono tornati a popolare le nostre comunicazioni. In questo senso, se dovessi pensare a un modello, mi viene in mente “Arrival” di Denis Villeneuve, che riprendendo un meraviglioso racconto di Ted Chiang, mette al centro della narrazione questo grande miracolo che è la scrittura.