«Una folla di errori fatti, una ressa di mancanze e la moltitudine dei rimpianti – come un insieme di abbagli – sciamavano ieri per tutte le corse della metropolitana di Roma».
Mettete insieme la metropolitana, la corsa – insensata – a caccia di quotidianità, corpi che si scontrano si incrociano si graffiano si accarezzano con gli occhi, dunque aggiungete l’amore e Roma (l’unica che al contrario si legge amoR, e pure un motivo ci sarà). Il viaggio e la meta, l’indefinito, il celeste, l’alto, il terreno, la carne, la miseria. Avrete I baci sono definitivi, l’ultimo libro di Pietrangelo Buttafuoco edito da La nave di Teseo: non è un romanzo né un saggio o qualsiasi altra cosa vi venga in mente classificabile in una determinata categoria; è una mappa, un cammino – perfino una sorta di pellegrinaggio – una discesa agli Inferi fino ad arrivare al regno degli dei.
C’è dimestichezza col sacro e col profano, un matrimonio perfetto per descrivere ciò che siamo, quel che facciamo, ciò che non diventeremo mai – meschini e presuntuosi nella nostra perfetta imperfezione.
Diceva Longanesi che «l’amore è l’attesa di una gioia che quando arriva annoia», e forse è così, ma non c’è tempo per pensare al dopo in questa raccolta di attimi, momenti sfuggenti e storie consumate nelle briciole di uno sguardo, che Buttafuoco ha assorbito nei suoi percorsi metropolitani – e oltre. Come un ladro di storie altrui, Buttafuoco viene risucchiato dal viaggio – corse metropolitane, transiti ferroviari, viaggi in auto, navigazioni, passeggiate – ed incontra dei e ninfe, satiri ed eroi, che sono semplici uomini, sì, ma in realtà abitano nell’Olimpo delle possibilità.
Sulla linea A, Cornelia, atrio, alle ore 6.30 – certe meraviglie, certi incontri straordinari, certi amori sommessi e dimenticati, si incrociano di frequente al mattino presto – nel punto «dove finisce la strada e già comincia il giorno» – punto che, per chi prende la metro, «è l’ingresso che porta ai sotterranei» – è apparsa Diana cacciatrice tra i gruppi di ragazzi pronti per l’esame di Stato.
Sulla linea B, Termini/Rebibbia, alle ore 9.40, c’era invece Demetra – figlia di Crono e Rea, sorella di Zeus, dea madre per eccellenza, dea della Terra produttrice – che sfogliava cataloghi di trebbiatrici condividendo alcune immagini con la figlia Persefone, nel sedile accanto, ça va sans dire.
Ma c’è anche Saffo sulla linea A, Vittorio Emanuele direzione Anagnina, che siede col Rocci sulle ginocchia; ci sono i due vecchi – che prendono la metro Battistini per andare ad Anagnina e ritorno, è così che si combatte l’afoso agosto romano – che si osservano mentre cadono a pezzi, lei che non è più moglie ma badante, lui che finalmente “è suo per sempre, nella totale dipendenza da lei”; e poi ci sono quei due sconosciuti, un homme et une femme (à la Lelouch), che si infuocano d’amore mentre lei entra e lui esce, passando dalla stessa porta del vagone: «lui resta nel “troppo tardi” e lei se ne vola via nel “mai più”».
Questo mosaico dettagliato e sfuggente di storie di viandanti – tolte alla quotidianità per diventare poesie in prosa nel taccuino del nostro Dante, senza Virgilio né Beatrice, che però ha trovato il suo personale «amor che move il sole e l’altre stelle» – è un cerchio che resta aperto, un recinto mai delimitato, che raccoglie pezzi differenti della medesima realtà.
Aleggia un’atmosfera strana, di palpito continuo, perché ogni attimo descritto è, sì, compiuto e finito, cristallizzato dal destino, ma è tale ancor prima di consumarsi davvero, come tutti quegli amori che, qui, nascono e muoiono senza darsi il tempo della noia (diceva, appunto, Longanesi), si aggrovigliano come fili, serpenti che si intrecciano con fastidio e allegrezza.
La potenza dell’amore è chiara, i baci non sono baci ma marchi a fuoco, e la metropolitana diventa Inferno e Limbo, il luogo degli Ulisse, degli Enea, dei Caronte, in una corsa in braccio al mondo e all’altrove; è la sacralità del profano questo Altrove, una spiritualità che si fa carne e sudore, ma non è ricerca, è materia. Certe assenze e i momenti perduti sono i veri protagonisti, l’ineffabile (dopotutto, la divinità non è tale?) e il non detto, la mancanza.
Infatti, a tratti, si respira quella malinconia, o forse anche quella nostalgia, che la Sicilia conserva e fa sua: l’isola – degli dei, ancora una volta – si riverbera nella scrittura di Buttafuoco, che è imperante, si impone sulla pagina con austerità. È una penna traboccante, la sua, avviluppante, ma in realtà quest’autorevolezza è più una sensazione che un dato di fatto, perché il respiro delle storie è ampio, in continua evoluzione, in moto perpetuo.
Ogni cosa è vera ed eterea, un sogno non addomesticabile, e lo è anche il ritmo di certe descrizioni, come quella dell’uomo «avvolto di blu e di rughe, dall’anima malinconica».
I baci sono definitivi raduna «i fantasmi dell’infelicità» che «galleggiano intorno alla stazione della metropolitana», i demoni «appollaiati sulle transenne» e tutti quegli amori, che premono sul petto, bruciati «in meno di un minuto»: «non si sono neppure presentati. Eppure si sono riconosciuti».