Di madre in figlia: l’Abruzzo e la maternità perduta

Da Grazia Deledda a Dacia Maraini, da Gianna Manzini ad Alba De Céspedes, da Francesca Sanvitale ad Elena Ferrante, la storia letteraria italiana è costellata di autrici che hanno affrontato e analizzato con cura il rapporto fra madre e figlia. Conflitti e dissapori, lontananze e assenze, infiniti ed inspiegabili silenzi: ciò che lega due donne, una più piccola l’altra più grande, a volte sembra essere una linea sottile di incomprensione, che, nonostante si logori con il tempo e con la sofferenza, resta sempre intatta.

E proprio di madri e di figlie, anzi di figlia, si parla nell’ultimo romanzo della scrittrice abruzzese Donatella Di Pietrantonio, L’Arminuta (Einaudi) – che in dialetto abruzzese significa “la ritornata”; la terza prova letteraria della Di Pietrantonio non ha deluso le aspettative di chi aveva letto e tanto amato il suo esordio, Mia madre è un fiume, anzi: la scrittura potente, scolpita nella pietra, sembra rinnovare la sua vigorìa ma con una sicurezza in più, una maturità raggiunta e consapevole.

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L’arminuta, appunto, è colei che è tornata al paese, un luogo dell’Abruzzo non ben precisato, vicino al mare ma ancor più vicino alla campagna e alle montuosità di una terra aspra e dura, profonda e oscura, come chi la abita (una rievocazione dei luoghi del paese natale molto affine a quella sostenuta da Lalla Romano in La penombra che abbiamo attraversato).

Ha tredici anni, la figura esile, un italiano impeccabile; lei è diversa dalla sua famiglia di origine, da cui ora è tornata accompagnata dal padre adottivo, suo zio. Poco più che neonata, l’arminuta – che non ha nome, come se fosse stata privata delle origini e quindi dell’identità – era stata adottata dagli zii, convinti che la famiglia natale, fin troppo povera e alle prese già con altri quattro figli (un quinto, Giuseppe, sarebbe arrivato dopo), non ce l’avrebbe fatta a mantenere anche lei. L’infanzia dell’arminuta, dunque, prosegue felice e spensierata lontana dai genitori biologici, ignara di ciò che l’avrebbe attesa di lì a qualche anno.

«Il materasso imbottito di lana di pecora era molle e deformato dall’uso, affondavo verso il centro. Emanava l’ammoniaca delle pipì che lo avevano impregnato, un odore nuovo e repellente per me».

Gli odori, i sapori e gli umori che le pagine, le singole parole, le immagini perfette come fossero fotografie, emanano, sembrano reali, sono reali: la miseria e la sporcizia in cui sprofondano, abbandonandovisi, i genitori dell’arminuta e i suoi cinque fratelli, colpiscono la bambina come uno schiaffo in pieno viso.

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Si può tornare in un luogo che è nostro ma che non ci appartiene? È giusto? È sano? Fa bene all’anima, alla mente, affondare le mani nelle proprie radici obbedendo alla legge della natura, ma senza che la mano riconosca il solco millenario che dovrebbe sostenerla?

Per l’arminuta non è solo un ritorno al paese natale, è anche un ritorno alla lingua madre – l’uso del dialetto, volto a rafforzare dialoghi ed emozioni, è, di fatto, la lingua del cuore, l’unica lingua naturale che l’istinto riconosce – e dunque un ritorno al materno. Ma qui, la maternità è doppia, esattamente come accade in Menzogna e sortilegio di Elsa Morante: esistono una madre biologica e una madre adottiva; esistono una maternità vera e una maternità misteriosa; esistono un bene e un dolore, una presenza e una lacerazione, uno strappo.

«Nel tempo ho perso anche quell’idea confusa di normalità e oggi davvero ignoro che luogo sia una madre. (…) La sola madre che non ho mai perduto è quella delle mie paure».

Il rapporto madre-figlia è, in ogni caso, un rapporto obliquo, interrotto, un percorso lastricato di abissi e di grandi addii. Se è vero che nella vita è insito il guizzo della morte, e viceversa, ancor più vero è che solo chi la vita ci ha donato è in grado di togliercela. La morte emotiva, più che quella fisica, è quel che contraddistingue il bambino danneggiato, che sarà l’adulto irrisolto di domani.

Questo tema, tanto caro alla Di Pietrantonio e presente anche in Mia madre è un fium”, è uno dei tòpoi della letteratura di tutti i tempi: da Medea a Clitemnestra, la storia si è sempre interrogata su quel grande mistero che è la maternità. In entrambi i romanzi svettano le cosiddette “proustiane intermittenze del cuore”, soprassalti della memoria – anche involontaria – nello scorrere della vita che si è andata via via normalizzando. La madre è colei che dà vita e parole, l’una inseparabile dall’altra, l’una propedeutica all’altra: difatti l’arminuta, che non riconosce la madre biologica come propria, inizialmente non comprende neanche la lingua parlata dalla famiglia di origine – il dialetto abruzzese.

Affetto sincero, forse isolato rispetto alle relazioni che l’arminuta intreccia con gli altri personaggi, è quello che lega la ragazza ad Adriana, sorella più piccola. Adriana incarna la tenerezza, la speranza, lo slancio vitale che si tramanda di madre in figlia: nella sua figura minuta, Adriana racchiude l’arditezza della donna fatta e finita, la donna di paese che non conosce vergogna, ma al contempo riesce a conservare l’innocenza del suo essere bambina e la dolcezza della sorella – prova inconfutabile che l’amore, quando è amore, sa riconoscersi.

Le donne della Di Pietrantonio, ansiose e serie, si muovono tra le righe abbattendo i confini del silenzio con la spudoratezza dei gesti.

Un romanzo che scuote e lascia il segno. Una scrittura indimenticabile.

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