«L’eroe è un’anima inquieta che attraversa il momento storico (…) per ristabilire giustizia».
Che sia del 1500 o del 2000, l’eroe resta sempre se stesso, mantenendo quelle caratteristiche che gli permettono di essere tale: in primis, l’illusione – che non è mai negativa, ma è speranza per il futuro – deve diventare realtà, si combatte per mantenere il sogno integro e la passione vivida. Lo fa tanto Don Chisciotte della Mancia quanto il nostro papà senza nome, senz’arte né parte, ma con tanto amore da dare a sua figlia: è lui, l’eroe dei nostri tempi, il protagonista di Mia figlia, don Chisciotte, seconda prova di Alessandro Garigliano, già noto al pubblico con l’esordio Mia moglie e io, segnalato al Premio Calvino 2013.
Lui ha quarant’anni, è disoccupato ed è il papà di una bambina che adora vestirsi da «principeffa» – tre anni, grande appassionata delle gesta eroiche di Lancillotto e Re Artù. Non hanno nome ma un’identità ben precisa, anche se, a ben guardare, la loro indole si scopre a poco a poco, ed è annidata tra le righe di un’opera tra le più importanti della letteratura mondiale, scritta dallo spagnolo Miguel de Cervantes Saavedra. Ovviamente stiamo parlando del Don Chisciotte della Mancia, l’hidalgo a cui tutti riconosciamo il merito di averci fatto sognare e forse un poco indispettire.
Partiamo da un fatto, e cioè che:
«La famiglia è per me un nucleo di difesa e di attacco. Da un lato mi protegge dallo sconforto, dall’altro acuisce i sensi di colpa per la mia vita precaria».
La precarietà e la gestione della stessa all’interno del nucleo familiare sono elementi da non sottovalutare, dacché il nostro (lo chiameremo così, come fosse un personaggio del Don Chisciotte) per instillare in sua figlia il senso del dovere e per non darle un’immagine distorta del “capofamiglia”, si improvvisa quotidianamente docente universitario, indossando il completo gessato del suo matrimonio. Effettivamente, però, un oggetto di studio reale c’è, ed è l’opera di Cervantes, che in questo romanzo viene riletta ed analizzata, anche criticamente, alla luce della vita familiare e dell’educazione della piccola principeffa.
«Solo mia figlia può reggere il paragone con l’ardito mancego», dice il nostro papà: sguardo vivo ed acuta intelligenza, questa bimba di tre anni contiene tutte le possibilità di reinvenzione e adattamento che ha don Chisciotte, conserva il suo coraggio, la sana incoscienza di condottiero e sognatore. E il papà – che la protegge, la accudisce, la rimprovera quando l’arditezza di intenti supera il limite del reale – non assomiglia al fedele scudiero Sancho Panza?
Preda delle paure, ecco che il papà viene “salvato” dalla figlia, ed ecco che Sancho – perso nei suoi voli pindarici tra passato e futuro – cade fra le braccia di don Chisciotte. E’ l’hidalgo che lo riporta alla vita vera, quella “senza macchia e senza paura”.
«Mia figlia – al pari di don Chisciotte – (…) incarna un’utopia errante»: fra travestimenti e letture ad alta voce dei grandi classici, Garigliano costruisce un romanzo divertente e ironico sul rapporto fra padre e figlia, che si dipana alla luce della scoperta più grande, l’amore infinito per la letteratura. Fantastica, magica, reale, un po’ isterica, vorticosa e cangiante, la letteratura arriva dove l’uomo si arrende, toglie la maschera alla finzione e getta le carte in tavola. Che il gioco abbia inizio.
Al bookpride sono stata indecisa sino all’ultimo se prenderlo oppure no (poi ho deciso per il no ma solo perché ho preferito prendere libri più “introvabili”), devo dire di aver subito pienamente il fascino di questo libro. E poi qualsiasi cosa entri in rotta di collisione col mio caro Quijo (così come scrivevo nei miei appunti di università!) non può non essere interessante 🙂
Sono sempre molto interessanti le tue recensioni. È davvero stimolante leggerti Giulia.