Carissimi lettori,
questo non è un post, non è neanche un articolo, né una recensione. E’ qualcosa di più, qualcosa che mi sta molto a cuore e che coinvolge tante persone, tanti sentimenti, tante anime. Il terremoto, che stringe l’Italia nella morsa dell’angoscia dal 24 agosto 2016, non è un fatto nuovo per l’Italia, ma è diventato qualcosa di opprimente e di preoccupante.
Abbiamo pianto centinaia di vittime, i danni sono ingenti, paesi interi rasi al suolo, vite spezzate. Chissà se e quando potremo parlare davvero di rinascita. L’Italia sono io – #riparTIAMO è un progetto a cui sto lavorando da qualche tempo. Le scosse continuano, la terra trema e non dà pace, ma i superstiti sono ancora lì, in piedi, in mezzo ad una strada, e bisogna, si deve, continuare a parlare di loro. Le difficoltà del centro Italia, flagellato dal terremoto, dalla neve, dalla lentezza burocratica, sono le difficoltà dell’Italia intera.
Ho deciso, quindi, affinché si continui a parlare del sisma e dei centri colpiti, di dare voce a chi quella notte del 24 agosto ha perso tutto, a chi ha visto in faccia la paura, la morte, a chi ora non ha più amici, parenti, una casa in cui stare, ma che spera, crede ferocemente, di farcela. Di poter ricominciare. Ho raccolto le storie di chi ce l’ha fatta, di chi non vuole essere dimenticato, di chi ha avuto il bisogno di ricordare, di raccontare, di testimoniare.
La prima intervista è ad Eleonora Cenfi, che a soli 14 anni è diventata Alfiere della Repubblica italiana. Ho rielaborato la sua testimonianza a mo’ di racconto.

Ha quattordici anni, si chiama Eleonora Cenfi ed è residente a Cittareale. È stata insignita del titolo di Alfiere della Repubblica lo scorso 13 dicembre 2016 dal Presidente Mattarella. Ama la sua terra, la “sua” Amatrice, e si è distinta per coraggio e intraprendenza: nelle ore successive al terremoto del 24 agosto – magnitudo 6.0, epicentro tra Accumoli (RI) e Arquata del Tronto (AP). 299 le vittime, interi paesi rasi al suolo – si è mobilitata, insieme agli altri volontari, per prestare soccorso. “Abbiamo sistemato, ordinato e consegnato tutta la roba che ci arrivava, tutti i beni di prima necessità. Non conoscevamo giorno e netto, non sentivamo fatica”.
Eleonora fa parte de La via del sale Onlus, un’associazione non a scopo di lucro impegnata nel recupero, nella promozione e rivalutazione delle aree interne del Centro Italia colpite dal sisma. Un’Associazione di giovani, che ha intrapreso e sta portando avanti progetti importanti. Qui tutte le informazioni utili.

Questa, la testimonianza di Eleonora.

Chissà cosa si prova a tornare indietro nel tempo e rivivere il momento dell’abbandono, l’addio al luogo che ci ha custodito per anni, sfregiato dalla cattiveria della Natura – madre e carnefice, dà e toglie, concede e sottrae. È proprio lei che ci insegna a vivere con ardore: lo stesso ardore che mette nel regalarci tramonti mozzafiato, albe folgoranti, bellezze senza tempo; lo stesso ardore che mette quando è arrabbiata con se stessa, e lascia che la terra sussulti, si scuota, si spacchi in due. Non esiste nulla di più umano della natura, niente di più simile all’uomo: permaloso, lunatico, incoerente, semplice, magnifico, crudele.
Non ci avevo mai riflettuto, prima della notte del ventiquattro agosto, né mi ero mai soffermata a pensare alla terra, agli alberi, alle case, a tutto quello che fa parte di me, semplicemente perché lo vivo, ci sono immersa. La quotidianità diventa liquido trasparente, ti accorgi che esiste solo quando cade a pezzi, soltanto quando qualcuno le fa del male.
Quella sera sarei dovuta andare ad Amatrice, passare una serata in compagnia, ascoltare un po’ di musica dal vivo e tornare a casa. Mia cugina ha insistito perché rimanessi a Bacugno, “una cena fra noi, per stare un poco assieme”, diceva. E va bene, in fondo una sera vale l’altra, Amatrice può attendere. Nessuno può portarla via.
Decido di andare a cena, poi al solito bar dove giochiamo a carte, quindi a casa di amici per il Monopoli. L’aria era ferma, il caldo opprimente, ma a quattordici anni va bene tutto, il mascara che cola, il rossetto che sfugge alle linee della bocca, i miei capelli, castani e lunghissimi, appoggiati sulle spalle, il corpo che cresce e scalpita, si ribella.
Sono le due quando rientro, salgo in camera senza far rumore, sfilo le scarpe, mi spoglio, tolgo il trucco. Mi stendo sul letto, il sonno fatica ad arrivare; la soluzione è la musica, mi rilassa, mi concede uno spazio fuori dal mondo.
Sono le 3.36.
Non è come l’avevo immaginato, non succede mai nei miei sogni: perché il letto si muove? Perché la camera scricchiola? Ma va, è una mia impressione, il dormi veglia mi frega sempre.
Sì, però io continuo a ballare, e non è colpa dell’immaginazione.
Mi alzo di scatto, il pavimento trema. Accendo la luce, il pavimento trema più forte. Apro la porta, il pavimento, le mura in legno, la casa, tutto trema ancora e più forte, molto più forte.
“Papà ma che…”
“Scendi e scappa”.
Scendi e scappa. Sono scesa e sono scappata. Da cosa? C’era qualcuno in camera mia, ne sono sicura. C’era qualcuno e muoveva il mio letto, batteva con pugni enormi sulle pareti, giocava pericolosamente con i lampadari, con i cassetti del comò. Ma io non l’ho visto in faccia, non ho fatto in tempo, forse erano più di uno, erano in molti, e sono riusciti ad entrare in tutte le stanze, a svegliare i miei genitori, i miei amici, i miei parenti. Sono una banda di delinquenti invisibili, fanno un gran baccano, rubano tutto quel che possono, il sonno, i sogni, le fossette al lato della bocca quando sorridi, le scintille di luce negli occhi, i bisbigli, i sussurri, le risate con la testa gettata all’indietro.
I piedi nudi si rincorrono sui gradini, le scale si moltiplicano, se mi raggiungono sono finita. Correte, correte più veloce della paura, più veloce del suolo che cigola, del cielo che trema, più veloce dell’inferno che c’è fuori dalla porta.
“Il terremoto! Il terremoto! Esci!”
Anche loro hanno il mostro in casa, fuggono tutti dal nido per trovare rifugio all’aria aperta, ma lui si annida ovunque, persino nella polvere sottile che si alza dalle macerie, facendola vibrare. Che faccio? Dove vado? Io, la notte che si ribalta e quel terribile senso di impotenza che annichilisce e crea un vuoto attorno a me, una bolla in cui i suoni giungono ovattati, liquidi. Il terreno ondeggiava, ondeggia, ondeggerà ancora, forse per sempre, perché quell’attimo è infinito, si è radicato nel tempo e l’ha bloccato; il paese è preda di un gigante che solleva le case e le getta a terra, sbattendole con forza.
Le grida dei miei parenti mi arrivano come da un luogo lontano, urlano il mio nome, mi stanno cercando; ma io sono già fuori, vorrei dire, sono già qui, al riparo da tutto e da niente. Le gambe si fanno di marmo, non riesco a muovermi, la voce fatica ad uscire, il terrore mi pietrifica, mi zittisce. Il caos corre più veloce dei pensieri, la paura accelera ogni gesto, ma ho la percezione che tutto avvenga al rallentatore. Ora crolla, ora crolla tutto. Ora crolla tutto e non resta più niente, ne sono sicura.
Pochi secondi di silenzio, la terra smette di tremare. Ormai siamo tutti fuori, la casa ancora in piedi, stiamo bene, tutto sommato. Ci affanniamo a rimettere insieme i cocci degli ultimi momenti, cerchiamo di capire cosa fare, dove andare. “Mamma, io salgo a prendere qualcosa da mettere, con i pantaloncini ho freddo”. “Eleonora sbrigati, prendi quello che capita e fai in fretta”.
Salgo di corsa, mangio le scale a due a due, afferro tutto quello che trovo, non guardo neanche cosa sia, tute, scarpe, maglie. Ho quasi finito, apro il cassetto per prendere i calzini e li sento di nuovo. Sono ancora loro, la banda. Tutto torna a ondeggiare, senza requie, senza pause. La scossa è fortissima, infinita. Resto immobile, chiudo gli occhi e prego. Per cosa, per chi si prega in questi attimi di terrore? Forse per nessuno. Le parole di Dio si affastellano con prepotenza in un angolo della mente e scavano con forza, demoliscono la lucidità e cercano di trasformare tutto in speranza.
Sono ancora in piedi, ci sono. C’è tutto. Il tremore cessa e io corro fuori. Mia madre, vicino all’ingresso, sbircia in casa con gli occhi di un condannato a morte. Il vento caldo e insistente dei giorni precedenti aveva smesso di urlare poche ore fa, quando tutto si era fatto quiete.
“Zio, hai notizie? Cos’è successo, dimmi se sai qualcosa”.
“Ancora nulla di preciso, sappiamo solo che l’epicentro è Accumoli”.
“Scherzi, vero?”
“No Eleonora. No”.
Accumoli, una manciata di km da me, da noi, dal nostro terrore.
È un po’ come essere in guerra, la notte diventa giorno, le bombe sono già esplose e chissà se e quando il nemico tornerà a farti visita. La trincea non era prevista, la gente chiede aiuto, giungono le prime notizie dai telegiornali, io non mi rendo più conto di nulla. Osservo il labiale, filtro i suoni, li divido fra prima e dopo: riconosco tutto quello che non è boato, che non è frastuono, ma non riconosco più le parole, che arrivano come pugni in faccia. “Amatrice non c’è più”. “Amatrice è rasa al suolo”. “Amatrice non esiste più”.
Che vuol dire? Come fate a saperlo? Chi ve l’ha detto? Nessuno lo sa, noi siamo qui, siamo salvi, tutti devono esserlo, tutti.
Lo sgomento di mio padre che si rivolge alla mamma: “È finita, Amatrice non c’è più”.
Allora è finita davvero. Ma Amatrice poteva, doveva attendermi, nessuno può portarla via.
Passano le ore, la stanchezza si fa strada; mi addormento in macchina, per un’ora o poco più.
“Eleonora, dai, facciamo colazione al bar, mangiamo un po’”. Mi alzo, seguo mia cugina, ma senza convinzione. Mi preme sapere cosa è accaduto, ora che sono più lucida e che tutto intorno, la campagna, le montagne, le colline, le fronde degli alberi, tutto parla di normalità, di quello che c’è sempre stato, ma loro l’hanno visto il mostro, non possono far finta di nulla, loro lo sanno.
Mio padre mi viene incontro: “Eleonora, ti devo dire una cosa…”
“Dimmi, cosa?”. Ero nervosa, lo sentivo. Avevo ancora il tremore sotto pelle, i polpastrelli vibravano, il fiato corto.
“Caterina non c’è più”.
“Caterina?”
“Sì, non ce l’ha fatta, è morta. Mi dispiace tesoro, non sapevo come…”
Mi state prendendo in giro? Cos’è? Uno scherzo? Ma insomma, come potete pensare che una ragazza di quattordici anni muoia in una notte d’agosto, in una delle tante notti d’agosto, che non aveva nulla di speciale, che era vestita della stessa banalità delle altre notti. Come potete dirmi che la mia più cara amica ora non esiste più? Che non potrò più vederla, sentirla, abbracciarla? E vorrei sapere, chi ha deciso che Caterina doveva andarsene? Dov’è quel dio supremo che ci guida e ci sorregge, dov’è quel dio illustre che ho pregato e implorato, dov’è ora che abbiamo più bisogno di lui?
Di quel momento ricordo poco e niente, ricordo solo le lacrime, copiose, che hanno rotto la barriera della tensione. Ricordo solo la panchina su cui mi sono seduta, perché la terra, la natura, dio, il cielo, non so più chi o cosa, mi aveva privato della sicurezza di una casa. Ho pianto lì, seduta su una panchina che ha raccolto il dolore di una nomade, di quella vagabonda che sarei diventata da quella notte in poi. Ho pianto il dolore della perdita, della paura di non sapere, di non poter fare, di non capire.
Sono arrivate le notizie, quelle più dettagliate, sono arrivate le immagini, i primi nomi di chi non c’era più. Ho vissuto undici anni ad Amatrice, conoscevo tutti. Niente sarà più come prima.
Arrivavo sempre intorno alle 7.40 ad Amatrice, col bus. Scendevo davanti alla torre, la città si era già svegliata. Mi fermavo al bar per la colazione e poi facevo tutto il corso per andare a scuola. Lungo il tragitto incrociavo parti di questa grande famiglia che ora non esiste più. Ho perso la quotidianità, il diritto ad una vita normale. Non potrò più fermarmi da Baccari per il cornetto al cioccolato, non potrò più salutare Rossella che già alle 7 di mattina apriva la ferramenta, non potrò più fare una scappata da Punto e Virgola per comprare matite e quaderni. In quella notte ci ho lasciato tutto, tanto. Le emozioni, i sentimenti, tanta tristezza, tanta paura, tanta rabbia.
Ecco, la rabbia. Il meno nobile di tutti i sentimenti, ma quello che ci costringe a tenere duro e ad andare avanti. Per rabbia continuo ancora a dormire al piano terra, vestita, sulla branda; per rabbia decido di sfidare la paura, di sfidare il terremoto e la natura stessa e per rabbia salgo al terzo piano, mi faccio la doccia, mi lavo i capelli con calma, li sistemo come piacciono a me, li voglio ricci, riccissimi. Per rabbia sento che niente mi terrorizza più davvero, perché ci si abitua a tutto, anche all’angoscia; mi sono abituata alle scosse, ogni volta che ne sento una più forte non penso più “Mi salvo o no?”, ma mi dico “Nel caso dovessi evacuare, dove sono le scarpe? Non posso uscire in ciabatte”. Alle cose più stupide, ecco a cosa penso. Non c’è più la sicurezza di nulla, perché affannarsi?
Piangere non è servito a niente, solo a darmi la certezza che non fossi diventata una statua di sale, ma avessi ancora forza ed energia per aiutare chi era in seria difficoltà. Per questo il venticinque agosto, con mio padre, sono andata a Cittareale: mi avevano spiegato che alcuni ragazzi erano lì come volontari, per sistemare, catalogare e consegnare i beni di prima necessità che stavano arrivando. Non ricordo più quante ore, quanti giorni abbiamo passato assieme agli altri, quante cose abbiamo sistemato: non sentivamo fatica, non conoscevamo più giorno e notte. Loro sono diventati la mia seconda famiglia, il mio secondo rifugio, nato dalle macerie, risorto come Araba Fenice, necessario alla memoria di chi non ce l’ha fatta.
Ricordo perfettamente il giorno in cui, con papà, abbiamo consegnato una scatola di merendine ad un’anziana signora, accucciata sulla sedia, sospesa nel vuoto, lo sguardo lontano. Pochi gesti, il mio sorriso incerto, la delicatezza di chi non vuole rompere un equilibrio già compromesso. La donna ha corrugato la fronte, in modo quasi impercettibile, ed ha iniziato a piangere. Piccole, fragorose, lacrime calde, con cui ci ha ringraziato.
Siamo ancora vivi, stiamo bene, tutto sommato. Amatrice può attendere. Nessuno può portarla via.