Il senso di responsabilità è ancora più forte del senso di colpa, perché tutto ruota attorno all’individuo, prima ancora che all’azione del branco. Storie di (ordinario) bullismo nell’ultimo romanzo di Giovanni Floris “Quella notte sono io”. L’intervista all’autore.
Giovanni Floris (giornalista e scrittore), alla sua terza prova letteraria, indaga l’universo dei giovani di oggi analizzandone il lato più oscuro, più cupo e più pericoloso.
Quella notte sono io (Rizzoli, 2016, pp. 236) è la storia di cinque ragazzi (Germano – il Kapo – Lucio, Margherita, Silvia e Stefano – voce narrante) e del loro senso di responsabilità smarrito; è la storia di Mirko, della sua diversità e del suo talento, unico e per questo attaccabile; è la storia di un senso di colpa collettivo ma che germoglia nel singolo individuo, unico responsabile delle proprie azioni e delle proprie parole.
Una storia di bullismo che prende spunto dalle tristi vicende di cronaca, un romanzo che nulla lascia all’immaginazione, accompagnando il lettore nel seminterrato umano, nel pozzo più nero della coscienza.
Com’è chiaro, in Quella notte sono io lei trae spunto dai recenti e numerosi fatti di cronaca (torna in mente la tragedia di Domenico Maurantonio, studente caduto dal quinto piano di un albergo a Milano). Perché ha sentito l’esigenza di affrontare questa tematica, elaborando, fra l’altro, una trama tanto cupa?
Sono al mio terzo romanzo, i primi due rappresentavano la parte solare dell’amicizia, mentre questo vuole in qualche modo raccontare l’aspetto più buio dell’essere compagni di scuola, è la parte che sostanzialmente mi mancava. Recupero qui l’aspetto cupo assente nei libri precedenti.
Cosa manca, secondo lei, ai giovani di oggi? Cos’hanno perso rispetto a quelli della generazione precedente?
Sicuramente alcune dinamiche sono cambiate, ma la sostanza no. Temo che la dinamica del sentirsi uguali a dispetto di “un differente”, o di sentirsi forti a dispetto di un debole, sia eterna. Ora trova una nuova forma di espressione che è quella di Internet, ma che in passato, ai tempi della piazzetta, era ben diversa. Certamente questa nuova forma espressiva è dirompente, molto pericolosa e va seguita, arginata per quanto possibile, ma credo sia la risposta a una situazione di natura che va combattuta con la Cultura.
Di Lucio, uno dei bulli del gruppo, lei scrive: “Si era costruito un collage di citazioni con cui coprirci gli occhi. (…) Ma bluff del genere stanno in piedi solo finché incontri qualcuno che conosce le stesse citazioni, più una”. Che ruolo ha la Cultura nella formazione di un individuo, quanto conta nell’educazione di un adolescente?
Una cultura di apprezzamento delle differenze e delle unicità porta il singolo a coltivare il proprio talento. Se culturalmente fossimo attrezzati a tollerare e apprezzare le differenze, ognuno apprezzerebbe la persona unica che è. Ci guadagnerebbe non solo la società, ma soprattutto il singolo: l’individuo allenato ad apprezzare le diversità altrui, sarà un individuo che apprezzerà anche se stesso e la sua unicità. La differenza, ciò che ci rende unici, in fondo è data dal talento, e la società non potrebbe che trarne un vantaggio.
Lei prima accennava ad Internet. Mi vengono in mente molti episodi di cyberbullismo, che hanno colpito giovani e meno giovani. Cosa pensa dei social network e dell’uso che se ne fa?
I social sono per tutti una grande possibilità di conoscere cose che prima non potevamo conoscere, e in un certo senso sono la possibilità di viaggiare per chi non può permetterselo. Ma è vero che c’è un pericolo: quella che è nata come una rete di apertura mentale, per potersi confrontare con il resto del mondo, sta diventando un luogo in cui ognuno conferma le proprie idee. Ognuno è portato a cercare un circolo di persone che la pensa come lui, trovando così la conferma alle proprie convinzioni. Doveva essere la terra del dubbio, ma sta diventando il terreno della certezza. Questo è il pericolo più grande.
Possiamo dire che nel suo romanzo si analizza più il senso di responsabilità di questi giovani bulli, che non il senso di colpa. Cosa significa essere responsabili?
In questo romanzo cinque ragazzi scoprono, dopo 30 anni, di essere stati i responsabili non solo della rovina della persona verso cui hanno usato violenza, ma anche di se stessi. Il senso di colpa perde terreno rispetto a quello di responsabilità. I protagonisti si rendono conto di aver distrutto delle vite reali: non solo quella del ragazzo bullizzato, ma anche le proprie, distrutte tutte in quella notte. Ed ecco che proprio quella notte “erano” loro stessi, non è più un episodio della loro vita, ma “è” la loro vita. Il senso di responsabilità, in fondo, è ciò che ci rende persone vere.
Parlando di giovani mi viene in mente, di riflesso, anche la politica, l’attuale classe dirigente. Sappiamo che al referendum del 4 dicembre c’è stata una grande affluenza degli aventi diritto (quasi il 69%). Molti giovani sono andati a votare e in tanti hanno votato No. Cosa pensa del rapporto tra giovani e politica, cosa pensa anzi di questa sfiducia dei giovani nei confronti della politica? Incide, in qualche modo, la mancanza di punti di riferimento forti nell’attuale classe dirigente?
Sicuramente l’esempio della classe dirigente può essere fuorviante; vedo e sento tante parole, tante azioni, usate dai politici per l’effetto che hanno nell’immediato, un po’ come se loro stessi avessero perso una parte della loro missione, guardare al futuro. Così, gestiscono il presente, ma non prevedono il futuro. La gestione ossessiva del presente porta la perdita del controllo del futuro. Questo è ciò che accade ai ragazzi nel mio libro ed è quello che rischiano di fare le generazioni osservando una classe dirigente così orientata all’immediato, tanto da perdere di vista “il successivo”. Questo è il rischio, in sostanza, che si corre con una classe dirigente superficiale e approssimativa.
Lei ha due bambini, di 12 e 9 anni. Commenta insieme a loro i fatti di cronaca sul bullismo?
Continuamente. Cerco di essere attento ad aprir loro la mente, ad abituarli all’idea della differenza; cerco, cerchiamo in quanto famiglia, di immetterli nella strada giusta, pur sapendo che, specialmente nel periodo adolescenziale, la vita subisce una semplificazione e si divide in due binari, bianco e nero. Cerchiamo di opporci a questa semplificazione, per quanto possibile.
La famiglia è uno dei fattori più importanti per la formazione e l’educazione di un ragazzo. Crede che sia cambiato qualcosa nel rapporto genitori-figli?
Cos’è cambiato forse è difficile stabilirlo, ma resta che i fattori di socializzazione sono sempre quelli: la famiglia, la scuola e gli amici. Proprio quelli della scuola sono gli anni in cui un ragazzo forma gli occhi con cui guarderà la realtà, dunque in quella fase della vita l’adolescente va supportato e sostenuto il più possibile. Penso in particolare ai professori, gli eroi civili del nostro tempo, perché si muovono con poche risorse, con poco rispetto da parte degli studenti e della classe dirigente, e combattono per la socializzazione dei ragazzi che sono sempre più difficili da trattare.
Perché ci fa tanto paura il diverso? Perché continuiamo a combatterlo, ad averne timore, tanto da giovani quanto da adulti?
Perché il diverso mette in discussione il nostro sistema di vita. O si è certi e sicuri di sé e del proprio modus vivendi, dunque aperti al cambiamento, oppure, nell’incertezza del proprio sistema di vita, scatta il terrore che qualcosa possa cambiare. Dunque si tende a cancellare la diversità. Questo è un meccanismo evidente in tutte le età.