Aylin amava profondamente l’umanità, ma aveva anche un temperamento forte quando credeva che qualcuno stesse subendo un’ingiustizia. Avrebbe fatto di tutto per difendere gli altri.
Questa è Aylin Devrimel Nadowlsky Goldberg, protagonista – reale – dell’ultimo romanzo di grande successo di Ayse Kulin, L’ultima famiglia di Istanbul (Newton Compton).
Aylin è una giovane donna turca, energica, indipendente, forte e volitiva, è stata uno dei dieci psichiatri più importanti di New York; ufficiale dell’esercito americano, si era guadagnata il grado di tenente colonnello e fu insignita della medaglia al valore in soli due anni.
Ma Aylin era anche una donna scomoda, proprio a causa della sua natura così dissidente, amante della libertà e della giustizia. Infatti, il 19 gennaio 1995, fu trovata morta in circostanze a dir poco ambigue.
Ayse Kulin, che haraggiunto l’apice della fama proprio grazie a questo romanzo, ci ha raccontato la storia della sua amica Aylin. Ho incontrato l’autrice al Bookcity Milano 2016. Ecco di cosa abbiamo parlato.
Chi è Aylin Devrimel Nadowlsky Goldberg?
Aylin è una mia carissima amica, una parente alla lontana ma prima di tutto un’amica, morta in un incidente molto strano.
Aylin è una donna libera, indipendente, molto forte, dalla personalità complessa. Cosa non le piace della cultura turca, quali divieti non accetta?
Aylin, le donne come lei, come me, cresciute nella nostra generazione, hanno vissuto in un Paese molto moderno, molto liberale. Abbiamo frequentato le scuole assieme ai maschi, avevamo diritto di flirtare con i ragazzi, avevamo la libertà di sceglierci il marito, di scegliere la professione. Molte sono diventate medico, avvocato, libere professioniste; vivevamo in realtà in un Paese che consentiva tutte queste libertà. Non c’era nulla che ad Aylin propriamente non piacesse di quello che era il suo Paese all’epoca.
Questo però valeva per noi che vivevamo in città e che provenivamo da una classe borghese o dai ceti alti della società. Non valeva invece per la parte orientale della Turchia, – le zone più remote e distanti – dove c’era invece una certa resistenza a consentire alle bambine e alle ragazze di godere dell’istruzione e dell’educazione. Spesso le famiglie preferivano far sì che le proprie figlie si sposassero molto giovani. La legge, però, affermava e stabiliva che ogni bambino/a aveva diritto ad una istruzione e che doveva frequentare la scuola almeno per i cinque anni della primaria.
Le ragazze come noi che vivano in città e frequentavano le scuole non avevano la benché minima idea che ci potessero essere delle zone del Paese dove alle coetanee non era consentito ciò che veniva consentito a noi. Le bambine venivano tenute a casa, non veniva loro permesso di andare a scuola e venivano date in sposa all’età di 10-12 anni. All’epoca non c’era la tv, non c’erano i social media, quindi noi, che non sapevamo, credevamo di vivere in paradiso. Intorno ai 18 anni presi coscienza della situazione che riguardava il nostro Paese: diventando scrittrice ho attribuito molta importanza alla questione e ho prestato anche molta attenzione al problema, per cui ho scritto storie, libri, fatto degli studi. Parte degli incassi della vendita dei miei libri viene utilizzata per fornire a queste ragazze un’istruzione.
Secondo lei è vero che oggi la Turchia è un Paese dalle forti contraddizioni e dai gravi problemi di identità?
Attualmente viviamo in un Paese afflitto da grandissimi problemi, perché per circa quaranta anni abbiamo avuto un cavallo di Troia nel nostro Paese che ha operato in modo nascosto e sotterraneo, cercando di impadronirsi delle varie istituzioni: il sistema scolastico, quello giudiziario… E all’improvviso è venuto fuori ed è esploso, quindi siamo rimasti shockati, non sappiamo cosa sta succedendo, cosa sarebbe potuto succedere se il colpo di Stato avesse avuto successo. Viviamo in un Paese coinvolto e avvolto da tantissimi problemi, stiamo attraversando enormi difficoltà, non siamo neanche liberi di viaggiare in autobus. Viviamo in una situazione d’emergenza, le persone possono essere arrestate anche senza un motivo apparente.
Cosa significa, oggi, essere una scrittrice nel suo Paese, la Turchia?
Essere una scrittrice in Turchia oggi non è differente dall’essere uno scrittore o un giornalista di sesso maschile: tutti coloro che possono essere visti come oppositori in questo momento stanno vivendo un periodo difficile. Possiamo essere sottoposti a interrogatori, possiamo essere imprigionati senza alcuna prova, per via di alcune leggi speciali che ci sono oggi nel Paese.
Non è un momento facile, sopravviviamo ma riteniamo che questa situazione alla fine dovrà pur terminare, la situazione cambierà.
Cosa l’ha spinta a scrivere un libro così duro, e così importante?
Aylin era, come ho detto, una mia cara amica, siamo cresciute insieme e dopo la sua morte ho deciso di scrivere un libro su di lei per cercare di farla vivere il più a lungo possibile. Questo, per me, è stato l’interesse principale, anche perché lei ha vissuto una vita straordinaria. Potremmo dire che ha vissuto cinque vite in una.
Cos’è per lei la scrittura?
La scrittura è la mia vita, ho iniziato a scrivere fin da quando mi hanno insegnato a farlo. Alle elementari scrivevo delle poesiole e poi alle medie dei racconti. Poi mi sono data ai romanzi. Ho tentato per tutta la vita di trovare un editore, ho aspettato 25 anni prima di trovare qualcuno che prendesse in considerazione il mio lavoro, perché si pensava che una donna borghese come lo sono io non potesse scrivere romanzi. Poi, con L’ultima famiglia di Istanbul è arrivato il successo vero e proprio.

intervista davvero interessante. Brava! Comprerò il libro. Come vedi, stavolta, non ho trovato – né cercato – il pelo nell’uovo. Vittorio Riera (Palermo)