“Sotto un altro cielo”: simile eppure straniero.

“E comunque non si deve mai condannare ciò che non si comprende. Non si possono mai comprendere fino in fondo gli altri popoli. L’Oriente e l’Occidente si incontrano a fatica, non crede?”

Sono le parole di Mark, il protagonista maschile dello splendido L’amore è una cosa meravigliosa di Han Suyin. Questo romanzo, pubblicato per la prima volta nella versione originale nel 1952 (tradotto poi in italiano nel 1955), racconta la storia vera della dottoressa Han Suyin, metà cinese e metà europea, lacerata tra Oriente e Occidente, e il giornalista britannico Mark, residente in Asia.

Riprendere queste parole, scritte dall’autrice negli anni ’50 del Novecento, sembra quanto di più attuale per descrivere la delirante – e alienante – situazione di difficoltà che stiamo attraversando al giorno d’oggi.

I tg e i quotidiani brulicano di notizie terrificanti, ci annunciano le continue morti di migliaia di persone, che cercano la salvezza in quel viaggio della speranza a bordo di barconi traballanti, incerti, pericolanti, proprio come le loro vite. Il nostro mare, divenuto una tomba a cielo aperto – un mare monstrum più che mare nostrum –, inghiotte regolarmente corpi esausti di donne, bambini e uomini che dall’Africa cercano di approdare in Italia, per fuggire dall’orrore della guerra, dall’orrore di una vita che non è più vita.

Le storie di queste persone – che siano migranti provenienti dall’Africa, in fuga dal Medio Oriente o provenienti dall’Albania, dai Paesi dell’Est, poco cambia – sono, prima ancora che vicende individuali, un fatto sociale. Per questo una coraggiosa casa editrice come Laurana ha scelto di pubblicare la raccolta di racconti curata da Claudio Volpe, Sotto un altro cielo (2016), in cui undici nomi illustri del panorama culturale e giornalistico italiano approfondiscono il tema dell’immigrazione e del disagio che questa gente vive quotidianamente, aggravato – come sottolinea Paolo Di Paolo nel suo splendido contributo – da quella forma di incomprensibile razzismo che ognuno di noi si porta dietro e che si chiama “paura del diverso”.

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I racconti – di Dacia Maraini, Giampiero Rossi, Gianfranco Di Fiore, Renato Minore, Francesca Pansa, Pierfrancesco Majorino, Simona Gambacorta, Claudio Volpe, con i contributi di Paolo Di Paolo, Michela Marzano e Alessandro Di Meo, fotografo ANSA e autore della foto di copertina – spiccano per intensità e durezza, poiché, senza patetismo alcuno, portano alla luce la crudezza delle vicende a cui assistiamo ormai ogni giorno, analizzando però il punto di vista di chi quelle situazioni le vive.

Colpisce, all’apertura, il racconto di Dacia Maraini, che decide di puntare l’attenzione sul piccolo Aylan Kurdi, sull’immagine dolorosa del piccolo corpo senza vita trasportato dalle onde sulla spiaggia di Budrum, in Turchia. È forse uno dei racconti più struggenti, perché rievoca un fatto tanto recente quanto penoso, e la Maraini ne parla col suo solito stile asciutto ma incisivo, senza sbavature, elegante ma diretto.

Colpiscono anche i racconti di Francesca Pansa col suo Leonie (“Era bella Leonie… In quei momenti di panico, quando tutti cercavano di salvare la pelle, lei ha pensato a proteggere i figli”), di Majorino che ne Il Drago di Berat racconta l’arrivo in Italia degli albanesi negli anni ’90 paragonandolo alle migrazioni odierne, e lo fa attraverso gli occhi di Nicolas, bambino italiano di seconda generazione.

Per dolcezza colpisce anche il racconto Shankar di Giampiero Rossi, il cui protagonista è un giovane indiano che, con un grande atto di coraggio (forse d’incoscienza?), cambia la sua vita per sempre e da guidatore di auto per turisti si ritrova improvvisamente dall’altra parte del mondo, lontano dalla sua India, al freddo, ma con un pugno di dignità in più nelle tasche e nel cuore.

Ma oltre queste storie, in cui l’invenzione del racconto si inserisce in quadro – reale – così duro e così fragile, spiccano i contributi finali di Di Paolo, della Marzano e di Di Meo. Ciò che colpisce delle loro parole è la sincerità, l’appassionata schiettezza con cui decidono di dire No al pregiudizio, No al razzismo, No ai frettolosi giudizi di una bieca ignoranza.

“Bisognerebbe partire dall’ignoranza”

Scrive Di Paolo

“Da ciò che non sappiamo, da ciò che non capiamo. È l’unico modo per rompere l’inganno degli stereotipi e dei pregiudizi, per mettersi al riparo dal rischio della presunzione”.

Da sempre il diverso, il cosiddetto βάρβαρος (barbaro), non solo spaventa, ma è oggetto di discussioni e pregiudizi di varia natura, senza considerare il fatto che ognuno di noi è qualcosa di “diverso” per l’altro. Gli emigrati italiani sono stati “stranieri” in America nel secolo scorso – ci ricorda saggiamente Michela Marzano – ma proprio i figli di quegli stessi italiani sembrano ora aver dimenticato la fatica di essersi fatti accettare da un popolo che aveva persino il nostro stesso colore di pelle.

L’ignoranza si dimostra, nuovamente, veicolo di incomprensione e di paura, portatrice di odio e diffidenza. Non ci sarà pace senza comprensione, non ci potrà essere distensione senza volontà di ascolto, prima ancora che di accettazione.

Questi undici autori e giornalisti hanno scelto di mettere le loro parole a disposizione dell’Uomo, hanno scelto di formare un coro di voci che apre la porta al dialogo, condannando razzismo e qualsivoglia forma di sciacallaggio e manipolazione a favore dell’ignoranza.

Siamo tutti vittime della paura, siamo tutti potenziali stranieri, barbari, “nemici” e “amici” dell’altro, per questo la raccolta “Sotto un altro cielo” si trasforma in un accorato appello al buon senso e, ancor prima, a quell’esigenza di umanità che preme sotto il velo della diffidenza.

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