La vita sa essere crudele come a volte non lo è neanche la morte, perché il logoramento di un’esistenza priva dell’amore di chi si ama è forse più atroce di qualsiasi altra tortura.
La cronaca dei nostri giorni è ricca, ahimè, di tragedie dalla portata decisamente superiore a quella della capacità umana di sopportazione del dolore. Proprio di una tragedia, tutta giocata sul piano psicologico e legale, si parla nell’ultimo struggente romanzo di Patrizia Fortunati, Trecento secondi (Falco Editore, 2015).
Protagonista è Paolo, uomo normale che conduce una vita ordinaria, marito di Francesca e padre felice di tre meravigliosi bambini. Una vita familiare come tante, anzi, forse migliore di tante – come ripete spesso Paolo, voce narrante del libro: lui e la sua Francesca si conoscono, si innamorano e si sposano nel giro di un anno, mettono in piedi la famiglia che li avrebbe portati lontano dalle loro paure e dalle loro incertezze, che li avrebbe, insomma, resi felici come ancora non erano riusciti ad essere con le loro esistenze solitarie.
Ma si sa, innamorarsi per solitudine o per fuggire da un passato ingombrante, non è il modo più giusto per rinascere lasciandosi tutto alle spalle: per risolvere i problemi e venire a capo di se stessi occorre innanzitutto avere il coraggio di affrontarsi, senza coltivare la necessità di rifugiarsi dietro l’amore di qualcun altro.
Eppure questo è ciò che accade proprio a Paolo e Francesca: lui oppresso da quell’amarezza che lascia la fine di una storia importante, lei in continua lotta con i fantasmi della mente e con una madre sbagliata. I cocci di questi due ragazzi si sono incastrati fra di loro, ma la colla che li univa non ha retto abbastanza. Mentre il matrimonio va avanti, nascono i figli, i problemi economi vengono fronteggiati e superati – tanto che potranno permettersi una bella villetta in periferia – qualcosa scatta nella mente di Francesca, qualcosa che ha radici profonde, che è frutto di un disagio a cui lei non ha mai saputo far fronte e che non è mai scomparso, si è semplicemente nascosto sotto la cenere.
“Sapevano bene, loro, che una figlia abbandonata dalla madre è una donna segnata per la vita”.
L’odio di Francesca verso il mondo, verso Paolo, verso se stessa, sfocia un giorno, all’improvviso, irrompendo con tutta la sua forza silente e disperata: da qualche mese la comunicazione tra i due coniugi era andata scemando, Paolo, pacatamente e silenziosamente, si era trasferito a dormire sul divano, ma tutto procedeva in modo più o meno “normale”. Fino a quando quel maledetto giorno, rincasando, Paolo trova la villetta vuota. Francesca e i bambini se ne sono andati.
Con la complicità dei suoi genitori (soprattutto con la pericolosa complicità di una madre che non c’è mai stata), Francesca inizia una battaglia contro Paolo accusandolo delle peggiori infamie, arrivando persino a denunciarlo per maltrattamenti contro di lei e abusi sessuali nei confronti dei bambini. Denunce su denunce, lotte su lotte, umiliazioni su umiliazioni, porteranno Paolo ad un passo dal baratro, dal quale riuscirà a venire fuori solo dopo milleseicentotredici giorni.
Patrizia Fortunati compie un’operazione molto delicata e difficile, e lo fa con successo: non solo si addentra in un terreno pericoloso e fragile come quello delle conseguenze – a volte tragiche, come in questo caso – di una separazione in cui di mezzo ci sono anche dei minori, ma lo fa mettendosi nei panni di un uomo. Perché se spesso la cronaca ci dice che sono le donne a subire maltrattamenti, vessazioni, quando non veri e propri omicidi, è anche vero che esistono realtà parimenti strazianti, a cui molti padri di famiglia devono sottostare.
Ci troviamo di fronte ad un romanzo unico nel suo genere, perché si narra una vicenda vissuta dal punto di vista di un uomo, ma contraddistinta dall’immancabile – eppure mai stucchevole, anzi – dolcezza femminile, quella dell’autrice. Questo è sicuramente un romanzo che parla di un presente, il nostro, difficile da vivere e forse ancora più difficile da gestire, anche a causa della lentezza giuridica, della fatica che a volte fa la verità ad emergere, troppo spesso vittima della superficialità dell’uomo, ma è anche un romanzo – coraggioso – sulla società e sulla capacità del singolo individuo di saper vivere il dolore proprio all’interno della società stessa.
Paolo non sarà solo vittima di un carnefice in gonna e tacco dodici che vuole portargli via tutto, figli, casa, dignità, la vita, ma è anche vittima dello spietato giudizio del popolo, che, morbosamente, è pronto a puntare il dito e a sentenziare il suo verdetto finale.
E però, è vero anche che questo è un libro che indaga le conseguenze dell’amore mancato, i postumi di un passato greve e torbido, quello di Francesca: i danni che un silente terrorismo psicologico – fatto di mancanze, separazioni improvvise, negazioni, bugie – provoca nell’animo umano quando si è ancora troppo piccoli per capire, si trasformano in giganti indomabili in età adulta, specie se a causare questi danni è stata l’unica persona di cui ci si dovrebbe sempre poter fidare, una madre.
Perciò ecco che Trecento secondi si tramuta anche in un romanzo di genitori e figli, di tutti quegli attimi di immortalità che intaccano il vissuto umano e che lo plasmano, giorno dopo giorno, in maniera indelebile.
C’è sempre, però, una luce in fondo al tunnel, una speranza che, a volte, ha un nome e un cognome, un volto, due spalle larghe per difendersi e gli occhi di un bambino, schietti e sinceri. Parlo di uno dei personaggi più toccanti di tutto il romanzo, Gildo Parisi, il Giudice che non si fermerà all’apparenza, ma indagherà, opponendosi alla menzogna. Il GIP, in questo caso, diventa l’incarnazione della Giustizia, che ha un fisico robusto per combattere, ma occhi di innocente da cui traspare la verità del mondo.
Patrizia Fortunati, dopo il successo di pubblico e di critica di Marmellata di prugne (Ali&no), si conferma autrice di spessore, penna coraggiosa e determinata a scandagliare le pieghe del dolore umano, con uno stile definito e incisivo, asciutto ed essenziale.